Il guardiano notturno di un negozio di abbigliamento, sentendosi solo, ruba un manichino femminile e se lo porta a casa. I vicini però si rendono conto fin da subito che qualcosa non va nell'uomo.
Il discorso parte dalla solitudine contemporanea, esponenzialmente accresciuta nelle metropoli caotiche e spersonalizzanti, per piombare come un macigno su argomenti delicati e controversi quali la malattia mentale e il feticismo sessuale. Vaxdockan - cioè Il manichino di cera, titolo con il quale il film dovrebbe essere uscito in Italia, sebbene risulti a oggi introvabile - è un'opera complessa, che va naturalmente al di là della sua (ben messa in scena) apparenza; Arne Mattsson non è d'altronde l'ultimo arrivato quando gira questo film, partendo da una sceneggiatura di Eva Seeberg tratta da un testo di Lars Forssell. Il regista viveva infatti ancora di rendita dalla consacrazione avvenuta dieci anni prima con Ha ballato una sola estate, premiato con l'Orso d'oro 1952 a Berlino e nominato per il Gran Premio a Cannes, dove comunque la pellicola aveva ricevuto un premio per le musiche. Il manichino di cera è il ritratto psicologico di una mente disturbata dalla follia dei nostri giorni, quella dell'incomunicabilità tanto cara ad Antonioni, nè più e nè meno; l'incomunicabile qui trattato è però quello delle classi sociali più modeste, ambienti permeati di uno squallore conformista e abitudinario, nelle quali non c'è il minimo spazio per l'evasione, per il colpo di testa, insomma per la fantasia. La donna-manichino non è insomma una rivisitazione del Pinocchio di Collodi: quello era un romanzo di formazione, il racconto di una crescita; questa è invece l'impietosa descrizione di una perdita (di lucidità, di stimoli sociali). Cast di solidi interpreti svedesi, tutti di una certa fama in patria: Per Oscarsson, Tor Isedal, Elsa Prawitz, Bengt Eklund sono i principali. Mattsson, classe 1919, in quegli anni lavorava ancora alla sorprendente media produttiva di 2 o 3 film all'anno. 5/10.
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