Regia di John Sturges vedi scheda film
La solitudine del vecchio pescatore in mezzo al mare raffigura la sua distanza dalla vita: una vita di cui, però, l’oceano, con i suoi piccoli miracoli e le sue immense crudeltà, riassume tutta la sostanza sotto forma di filosofiche metafore. Il suo andare alla deriva è come perdersi nella vastità della saggezza conquistata, da cui trae la forza per tirare avanti, ma che lo riempie anche di amarezza per le lezioni che la vita gli ha impartito. È il bilancio di un’esistenza intera che viene messo in gioco in quella estrema sfida, in quel tenace inseguimento della preda e nella strenua lotta contro i predatori. Reggere la lenza trainata dal grosso pescespada è come rimanere attaccato al prezioso filo del ricordo, al pesante fardello di memorie che danno un senso al suo stare ancora al mondo; resistere significa mantenere alta l’orgogliosa consapevolezza di aver vissuto. Combattere per uccidere gli squali è invece un cimento velleitario, intrapreso per dimostrare a se stesso di poter ancora vincere: è la presunzione di fingere che il tempo non sia mai passato, che si conclude con la constatazione che ciò, in parte, forse è anche vero, visto com’è rimasta intatta la sua attitudine a sbagliare.
Quella de Il vecchio e il mare è l’avventura finale, ruvida e pungente come la salsedine, che consuma la pelle, ammorba il gusto e ferisce gli occhi; è l’eroica agonia di chi ha esaurito tutte le risorse ed è rimasto armato solo di fierezza e di disperazione. Uscirne vivo è l’inutile traguardo che affatica il corpo senza dare alcun guadagno; ed ogni giorno in più strappato all’ineluttabile declino è solo l’occasione di vedere apparire, sotto le proprie mani sanguinanti, una corda logora, o una lisca rosicchiata, ovvero un’altra delle mille forme in cui si presenta la sconfitta.
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