Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film
Film intenso e contaminante con un chiaro monito allo spettatore avvolto nel caldo liquido amniotico della sala cinematografica
«Forse vivere è contemporaneamente una pena e una colpa, e forse il colpevole di vivere è punito appunto col vivere, per quanti fortilizi di tana si muri attorno fingendo d’essere morto». Questa frase tratta dal Castello di Kafka racconta meglio di ogni altra uno dei film più interessanti di questo scorcio di stagione. Inarritu ricorda la lezione di Renoir e dello "sguardo del poeta" nell'ultima inquadratura su Di Caprio quando il suo sguardo, da obliquo, si fa diretto, divenendo uno sguardo accusatore rivolto proprio agli spettatori, al sicuro nel liquido amniotico della sala. Il film è tutto racchiuso nell'immagine ricorrente del candore del terreno innevato violato da enormi chiazze porporine di violenza umana. L'uomo che sporca con la sua misera esistenza, fatta di avidità, soprusi, stupri una natura incombente (si vedano le frequenti inquadrature dal basso alle cime frondose di alberi mai così minacciosi) che non vuole essere contaminata e leva alta la sua voce al singolo atto umano (come quando uno sparo provoca subitaneamente una valanga). Efficace il commento sonoro cupo e denso di Sakamoto e splendida la fotografia di Lubezki, sette candidature e due premi Oscar nel suo carniere, già collaboratore di Malick e ora perno del cinema di Inarritu. Che vinca il terzo Oscar?
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