Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film
In virtù dei crediti derivati da “Birdman”, Inarritu non ha perso tempo e battendo il ferro finchè è caldo si spinge oltre senza paura alcuna. Laddove l’animo umano si devasta, la natura svetta ed il fidato Lubezki può offrire il suo meglio. Uno scorcio di cinema che si può amare (alla follia) o meno, ma che non lascia certo indifferenti.
Forte dei meritati riscontri ricevuti con “Birdman”, Alejandro Gonzalez Inarritu ha avuto istantaneamente, per la serie non si vive sugli allori, la meritata possibilità di alzare esponenzialmente il tiro, tanto da potersi giocare le sue carte su un sentiero irto di ostacoli, con un vero e proprio “blockbuster d’autore”.
135 milioni di budget che non comportano alcuna svendita al dio dollaro, il suo film non si offre gratuitamente al pubblico, è anzi essenzialmente crudo come pochi nella rappresentazione che nelle immagini non ammette deroghe che semmai si vedono altrove.
Diciannovesimo secolo, una compagnia di cacciatori di pelli è costretta alla fuga da un attacco di indiani, Glass (Leonardo DiCaprio) è la guida deputata a riportare in salvo i sopravvissuti, ma un attacco di un orso lo porta ad un passo dalla morte.
Viene abbandonato con l’inganno da Fitzgerald (Tom Hardy) che invece di accompagnarlo fino al momento del trapasso lo lascia da solo credendolo morto,per giunta uccidendo pure ciò di che più caro ha al mondo.
In realtà Glass non è morto e la volontà di vendicarsi lo spinge ad andare oltre a quelle che sono le plausibili facoltà umane.
Sembrano lontani anni luce i dubbi che erano sorti sul futuro, ormai presente, di Alejandro Gonzalez Inarritu dopo la sua separazione col fidato sceneggiatore Guillermo Arriaga, ci siamo accorti che in realtà il genio che con lui collabora come se fosse il suo gemello (dotato, saggio, capace) in realtà è Emmanuel “Chivo” Lubezki.
E’ lui l’anima portante di quest’opera, non certo priva di altre eccellenze, ma lui svetta in maniera siderale, chiunque ami l’arte del suo mestiere non può che sciogliersi di fronte alle sue ripetute iniziative, a partire da un incipit che si fa poderoso in un attimo, con una tecnica che non si insegna in nessuna scuola, è “semplicemente” un talento innato.
Quella che si dipana è un’avventura di rara crudezza, come la carne che vediamo mangiare o srotolare da un corpo di animale morto per poterci dormire dentro, un viaggio senza biglietto di ritorno, tra lande perennamente innevate, ruscelli che non portano ad alcuna foce di salvezza ma solo ad altre fatiche da affrontare.
Una sorta di via crucis spirituale ma anche tangibile nelle ferite vivissime di un corpo che è lo specchio di un’anima tumefatta, un racconto che vive di immagini naturali che sprigionano di un’immensità irraggiungibile, col paradiso dietro l’angolo con ripetuti fotogrammi che lo rendono tangibile, tra realtà ed immaginazione.
Un tragitto con andata senza un possibile ritorno, non c’è salvezza consolatoria (da qui nasce una possibile assoluzione all’impossibiltà dei fatti), c’è un target estremamente percettibile, che le riprese da terra, mai così predominanti (anche noi che guardiamo “mangiamo” la terra) , rendono sensibili, vicine e consone.
Non viene risparmiato nulla, a partire del feroce duello tra Glass ed un orso (altro tassello di rara purezza cinematografica), forse si esagera, ed in fondo appare tutto un enorme travaglio, con la verosomiglianza che viene accantonata volendo vivere sulla pelle viva, fatta di ferite insanabili, con la sete di vendetta (che poi Dio solo sa …), indiani che fanno realmente paura, ma non privi del classico onore (ma poi non si regala nulla a nessuno), con la natura che già non ci perdona/aiuta.
Su tutto svetta l’impronta di Emmanuel Lubezki, dettagli su dettagli, riprese dal basso mai così copiose, scorci di luce che si allargano all’orizzonte, lunghe sequenze senza tagli che tolgono il fiato, poi spazio agli interpreti, con Leonardo DiCaprio portato all’estremo, la star che si fa corpo ed anima trafelata, prova di rara sofferenza anche se poi il rabbioso Tom Hardy, già di scalpo ferito, ci ricorda a chiare lettere quanto possiamo essere privi di ogni riferimento umano, apparendo come un mostro disposto a schiacciare tutto per se stesso.
Non è un’opera perfetta “Revenant”, lo sviluppo poteva calibrarsi meglio, ma percuote, trascina nel desiderio di vendetta e giustizia, lascia addosso sensazioni anche sgradevoli e non fa niente per evitare che ciò accada, considerando che in fondo è anche un’operazione che arriva anche ai meno avvezzi alla materia, è quasi una lezione su come si possa abbinare l’alto profilo, che non gli manca, ad un approccio che anche nella trascendenza riesce a comunicare se stesso senza svendere la sua anima al diavolo.
Ostinato con coscienza ed un talento immaginifico senza confini.
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