Regia di Andrew Niccol vedi scheda film
War games
Che il mondo stia cambiando in fretta non v’è dubbio alcuno e gli evidenti segni del suo repentino mutamento toccano anche il settore militare.
Oggi le guerre non si combattono più ‘partendo per il fronte’ ma stando seduti comodamente in poltrona.
E non si parla di capi di Stato, che dalla poltrona proprio non vogliono staccarsi, ma di soldati, quegli uomini cioè, come la storia c’insegna, che nei conflitti armati ci sono dentro (e per tanti di essi rappresenta la loro condizione naturale) fino alla punta dei capelli o del berretto, quelli, nella fattispecie, che la loro parte di guerra la fanno dall’alto dei cieli, pilotando cazzuti caccia, avvezzi o, come si suol dire, nati per trascorrere la vita a percorrere nell’aria traiettorie invisibili affilate come lame di rasoio, perfettamente consci di condividere l’angusto eppure tanto confortevole (per lo spirito) abitacolo in vetro con la triste, sempre solerte, signora mietitrice.
Oggi, quindi, i piloti dell’aeronautica made in usa (e non solo yankee) non arriveranno mai a toccare il cielo e giammai saranno alla guida di un jet a dispensare bombe ai nemici di turno, piuttosto assolveranno al compito di servire e difendere la propria Nazione secondo le modalità all’avanguardia di un qualunque comunissimo sedentario impiego d’ufficio.
Nel deserto del Nevada, ogni giorno, tutti i giorni, questa nuova generazione di soldati stanziali si reca dalla propria abitazione verso le missioni da compiere stabilite secondo calendario; prende posto nella catena di container adibiti a stazioni di controllo e, manovrando la propria consolle, guida dalla sua postazione in terra natìa gli ultimi ritrovati tecnologici per la difesa nazionale, ovvero sofisticati droni impossibili da intercettare mediante radar, che sorvolano dall'altro capo del mondo lo spazio nemico individuando l’obiettivo da colpire. Al pilota, non resta che schiacciare un bottone, così una bomba verrà sganciata sulla X, eliminando il problema alla radice.
La missione compiuta, secondo il gergo dell’aereonautica, viene annunciata con l’espressione good kill: lavoro andato a segno, ma anche lavoro perfetto, pulito, perché col supporto dei computers si mira a colpire unicamente il bersaglio voluto, riducendo a zero il margine di errore umano e quindi gli sprechi e gli eventuali danni collaterali a cose e persone (sulla carta).
Dopo il turno, il pilota del futuro se ne ritorna tranquillamente a casa, passando magari per il supermercato a procacciarsi il necessario per un gustoso barbecue da consumare insieme alla famiglia e ai simpatici vicini.
È questa la nuova concezione di guerra.
E somiglia più ad una simulazione o, meglio, ad un gioco sparatutto con la playstation.
La differenza è che miete vittime sul serio.
È un lavoro a metà, un agire ‘posticcio’ come posticcia, del resto, è Las Vegas, che si erge lì, nel bel mezzo del nulla, che visto dall’alto molto assomiglia al nulla arido e polveroso delle zone nemiche. E la stessa città diviene emblema di questa studiatissima pantomima, con tanto di divise indossate semplicemente per fare scena, aiutare il pilota a calarsi nel ruolo mancato dell’action man e rendere tutto un po’ più credibile.
Film di bruciante attualità perché riflette con lucidità ed obiettività sulla nuova dilagante idea del gestire (e creare), oggi, attraverso l’uso dei droni, le guerre, sempre più inclini ad adottare soluzioni di natura virtuale e sempre meno propense a strategie interventiste dal vivo.
Facendo luce sui molti aspetti positivi che l’impiego di tale tecnologia comporta, come contenere le perdite, garantire sicurezza, attraverso vedute satellitari, ai soldati in terra ostile e magari poter compiere, in mezzo a tanta disumanità, un gesto che possa riconoscersi finalmente umano.
E poi, naturalmente, fioccano gli aspetti negativi.
Come le ripercussioni psicologiche sui militari, ridotti alla stregua di automi, di burattini dal pathos azzerato, privati della minima autonomia decisionale e della propria coscienza, manovrati dal grande puparo dell’Intelligence (simile ad un regista che dall’alto del suo infallibile ruolo di director comanda a bacchetta i propri attori - chiaro il riferimento a The Truman Show scritto proprio da Niccol) che nella veste di strenuo difensore della Nazione finisce col sostituirsi a dio per l’enorme potere che la guerra computerizzata le ha messo nelle mani, dal momento che ogni bersaglio inquadrato dal monitor, impossibilitato a difendersi a sua volta, si rivela un good kill assicurato.
Guardare uno schermo e schiacciare bottoni, all’infinito. Come una catena di montaggio.
Per di più in religioso silenzio, senza nemmeno poter udire i rumori di fondo (necessari per l'orientamento, la percezione della realtà circostante), il boato di una granata, il suono martellante dei colpi esplosi.
Sul monitor compare un lampo, un fungo di fumo che si alza nell’aria e i resti sul selciato.
Condizione, questa, che contribuisce ad acuire nel soldato quel profondo senso di alienazione dannoso quanto gli effetti del disturbo post traumatico da stress.
'Combattere' da dietro uno schermo è un po’ come stilare una lunga lista di esecuzioni,
è come guardare morire un condannato alla pena capitale da dietro il vetro a prova di sfondamento sedendo in prima fila,
è come essere un boia che accompagna alla forca il colpevole di turno.
Può trasformarsi in una sistematica operazione di sterminio. Una nuova, pulita, modalità di genocidio.
Paradossalmente, scollarsi dalla realtà fisica ed emozionale del conflitto, ‘combattere’ rimanendone fuori, può indurre il soldato a prendere atto con assoluta disarmante chiarezza di quale sia l’essenza della guerra ben celata dietro un mare di retorica, valori patrii, idealismo e condizionamenti culturali: un nonsense di distruzione e morte che non contempla una fine, che non prevede una via d’uscita.
Le guerre del domani sforneranno soldati che invece di timbrare il cartellino sganceranno missili dal proprio ufficio, vestiranno uniformi impeccabilmente linde, si muoveranno in spazi ordinati e asettici, berranno caffè nel momento cruciale di un attacco e si prenderanno generosi minuti di pausa per sgranchirsi le gambe dalle troppe ore di stallo in poltrona.
Rischieranno, al massimo, la pancetta o tutt’al più un importante sovrappeso.
La guerra come l’abbiamo conosciuta fino adesso non ci resta che (ri)guardarla nei film, così come le vertiginose evoluzioni compiute dai caccia.
E (ri)assaporare il coraggio o l'incoscienza, l’adrenalina che si sprigiona, l’eccitazione mista alla paura di perdere quota e schiantarsi al suolo.
Fanno parte di un’epoca oramai conclusa, quando tutto era un po’ più vero e a misura d’uomo.
Andrew Niccol e il suo cinema divergente, non allineato, con Good Kill ancora una volta ha centrato il bersaglio.
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