Regia di Wang Bing vedi scheda film
“Stare chiuso qui per troppo tempo ti fa diventare malato di mente. Intendo, seriamente malato di mente. Anche se non hai infranto la legge, ti possono chiudere qui, 24 ore al giorno. Guarda il registro delle ammissioni e capirai. È illegale. Illegale e sconsiderato. La maggior parte della gente è stata portata qui a causa di risse.”
Oltre il documentario.
Lo sguardo rigoroso di Wang Bing si addentra tra le mura di un istituto psichiatrico dello Yunnan. Al suo interno, follia e miseria hanno lentamenta lacerato l'anima e il corpo dei pazienti (detenuti). Nessun programma di risanamento, nessuna possibilità di guarigione.
Feng Ai osserva un mondo reale, tangibile. È un flusso di movimenti, di dolori, di sentimenti che si intrecciano e che lentamente si insinuano nella carne. L'occhio si muove rapidamente tra quelle piccole stanze dove la vita sembra quasi essersi femata. La ripetizione dei gesti, delle azioni e dei comportamenti ha consumato lentamente l'uomo e la sua dignità.
L'ultima pellicola del cineasta cinese, presentata fuori concorso a Venezia 70, spoglia il cinema dei suoi eccessi, del suo carattere prettamente estetizzante e lo riporta definitivamente a contatto con la nuda e cruda realtà. Sentimento e ossessione.
Follia e amore.
“La prima volta che ho messo piede in un ospedale psichiatrico risale a dieci anni fa, gironzolavo per Pechino e mi sono imbattuto in una struttura simile. Ho subito pensato che mi sarebbe piaciuto girare un film, ma il rifiuto totale a farmi entrare con una telecamera mi ha fatto procrastinare il progetto fino ad oggi. Quello che avevo visto in quel lontano pomeriggio continuava a tornarmi in mente: era una storia che dovevo raccontare. Nove anni dopo, un mio amico dello Yunnan (a cui avevo raccontato questa idea), mi chiama per dirmi che ha trovato un modo di farmi entrare in una struttura simile. Infatti conosceva un medico che era stato trasferito da poco nella clinica: una fortuna perché soltanto una persona del genere avrebbe potuto farci entrare con una telecamera. Una doppia fortuna perchè quel medico era una persona sensibile, capace di comprendere il mio progetto, era anche lui allibito della condizione in cui versavano i pazienti e ci ha incoraggiato nel portare a termine il documentario per dare visibilità a questa situazione. Nel nostro primo incontro è stato il medico a chiarirmi l'importanza del progetto, che avevo in mente da tanti anni.”
(Wang Bing)
Feng Ai purifica il cinema e il documentario.
Lo sguardo di Wang Bing, rigoroso e fantasmatico, esplora uno spazio ristretto, claustrofobico. Il manicomio dello Yunnan si restringe ad un piano, ad una terrazza recintata. Al suo interno, i pazienti si muovono lentamente e ossessivamente, come se non ci fosse altra soluzione, altra via d'uscita. Il lento scorrere del tempo e la lunga prigionia hanno reso l'uomo malato, folle. Il cineasta cinese vuole ricordarcelo, alla fine della visione: "Alcuni sono stati dichiarati pazzi criminali a seguito dell’uccisione di genitori, coniugi, figli, vicini di casa o sconosciuti. Alcuni sono stati ricoverati per abuso di droghe o alcool, condotta disordinata, rissa o vagabondaggio. [...] Alcuni sono stati ricoverati perché disabili, sbandati o abbandonati, incapaci di comunicare o di provvedere a se stessi." È la reclusione, l'opprimente ripetizione dei gesti e degli avvenimenti che ha rovinato l'essere umano. Non è infatti un caso che Ma Yonglian, Yin Tiaxing e altri (i ricoverati da pochi mesi) appaiano relativamente "normali" al nostro sguardo.
I medici, d'altra parte, sono quasi deltutto assenti. I loro compiti si limitano alla somministrazione dei medicinali e al (violento) ripristino dell'ordine all'interno dell'istituto. Non c'è un programma di risanamento, un tentativo di recupero. L'uomo è abbadonato al suo destino e, come all'interno di un girone infernale, è costretto a sperimentare, ogni giorno, le solite esperienze. La vita si è ridotta ad una continua e monotona ripetizione di gesti, di sguardi, di movimenti. Lo sa bene Ma Jian che, per fuggire dalla pazzia, comincia a correre incessantemente per il corridoio. "Sembra di volare" lo sentiamo esclamare.
Lo sanno bene Tian Xingcai e Wu Shensong che, stringedosi fra di loro, cercano il contatto umano per sconfiggere la follia: “Non vorrei infatti che si interpretasse l'amore come nell'accezione comune, l'amore tra un uomo e una donna, e ci terrei a chiarire che quel sentimento che appare nel finale tra due uomini non è un rapporto omosessuale bensì l'amore nella sua accezione più essenziale, il contatto fisico con l'altro. Gli uomini che sono internati da anni in queste cliniche ricercano qualcuno da stringere, qualcuno con cui dormire: hanno bisogno di uscire dall'alienazione attraverso un rapporto umano.”
Il regista si mimetizza e, senza intervenire direttamente nella ripresa, si appresta a documentare. Il suo sguardo silenzioso non giudica, non denuncia, non commisera. Niente di tutto questo. Feng Ai è un documento reale e tangibile, che necessita l'oggettività del suo autore: “Come documentarista ho chiaro che è la mia presenza a costruire il film, paradossalmente trovo che il segno dell'autore sia più marcato nel cinema del reale che non nella finzione. Al contempo, quando giro i miei film, cerco di non disturbare la realtà, non mi piace intralciarla, provocarla o interromperla: alcune reazioni delle persone che riprendo possono essere causate dalla mia presenza, ma cerco di andare sempre aldilà. Per questo uso delle inquadrature lunghe, in cui poco a poco chi mi è davanti dimentica la mia presenza ed è spinto a superare il suo essere un personaggio.”
Bing non "disturba la realtà" perché preferisce mostrarla nella sua interezza, trasformando lo strumento filmico per eccellenza (lo sguardo) nell'unico documento consultabile. Solo attraverso la ripresa degli eventi, infatti, abbiamo la possibilità di esaminare e di giudicare la situazione all'interno del manicomio.
Solo attraverso l'occhio possiamo cogliere la desolante condizione dell'uomo reso folle.
“Lo spazio all'interno della clinica era estremamente ristretto e all'inizio mi sono trovato a disagio: non sapevo che distanza tenere, quasi fosse il luogo a dettarmi delle inquadrature e non io a sceglierle. L'ambiente era affollato, tra degenti e infermieri, noi ci trovavamo sempre persone da tutte le parti, la confusione non mi aiutava a trovare un'idea di cinema e ho avuto paura. Soltanto dopo dieci giorni ho iniziato ad ambientarmi, a trovare il giusto modo per stare il quel posto, la maniera per interagire con le persone. Da quel momento ho iniziato a scegliere i miei personaggi.”
(Wang Bing)
Attraverso una mdp quasi sempre sottoesposta, Bing si sposta rapidamente tra la folla dell'istituto psichiatrico. Lo sguardo, al di là delle costrizioni e dei limiti, riesce a farsi strada tra il caos movimentato. È un continuo divincolarsi dentro e fuori gli spazi, senza interruzione.
Feng Ai rende lo spettatore attivo. Lo scuote, lo sconvolge e lo rende partecipe della sua illusione: nonostante la restrizione claustrofobica dell'ambiente e nonostante l'apparente ripetitività delle circostanze, l'esperienza è sempre nuova e le persistenti camminate dei pazienti assumono, con lo scorrere del tempo, un significato sempre più evidente. Esemplare, da questo punto di vista, l'indifferenza che si viene a creare tra l'esterno e l'interno: il detenuto che abbandona il manicomio è come se non ne fosse mai uscito. L'isolamento è ormai diventato parte della sua stessa esistenza (“Era isolato nel mondo così come nella clinica”).
Fuori, come dentro, l'uomo ha ormai perso tutta la sua dignità.
Feng Ai si sofferma, ancora una volta, sui suoi personaggi. È l'ultimo gesto d'affetto, l'ultima ricerca di un contatto umano. L'ultima possibilità per cogliere l'importanza e la necessità di una pellicola che è riuscita a riportare il documentario (e il gesto visivo) in primo piano.
Il cinema è stato purificato, e così anche il nostro sguardo.
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