Regia di Michael J. Gallagher vedi scheda film
La quadrilogia craveniana con Ghostface, il killer che tutti possono essere basta indossare la maschera e il costume adatto, indagando sul percorso storico e formale dello slasher-movie, teorizzava la diffusione virale della violenza senza causa come la nuova istintualità del genere umano ormai privo di un sano rapporto con la realtà e i suoi metri di misura L’operazione di Michael J. Gallagher in Smiley, aggiornata alla online-generation, riprende l’intuizione di Wes Craven e svuota di identità, scopo e funzione non solo il genere stesso, ma anche il carattere del killer metafisico, il nuovo boogeyman dell’immaginario horror contemporaneo.
Purtroppo Gallagher non è Craven e anche se l’idea è apprezzabile, scivola a più riprese su tante scene di raccordo, non solo banalmente informative, ma proprio inutili nell’economia della sintesi cinematografica. Inoltre, sbaglia in pieno i caratteri e i loro attori. La protagonista interpretata da Caitlin Gerard è una parodia involuta della celebre eroina virginale del mondo WASP, pessima attrice e nemmeno corpo da mattanza. Il belloccio di turno, Andrew James Allen, è solo belloccio e non riesce a inquietare quel poco che dovrebbe con il suo arrogante e sgradevole personaggio ricco, borioso, bello, seducente e vincente – a detta di lui. Il resto dei comprimari è ugualmente insipido, fatta eccezione per il professore interpretato da Roger Bart – il George di Desperate Housewives (2005-2006) – ambiguo quanto efficace. A lui la scena più bella ed inquietante dell’intero film: il dialogo naso a naso con la protagonista nel suo ufficio del college.
Dove invece si fa notare con piacere una certa idea autoriale è nel taglio registico di molte scene, soprattutto gli scandagli onirici o allucinogeni della Gerard, in cui la distorsione dell’ambiente rassicurante di casa e scuola aiutano a maturare una certa angoscia tipica di un film horror né rurale, Non Aprite Quella Porta (1974) e affini, né cittadino, Halloween (1978) e via dicendo, bensì scolastico o per lo più giocato nell’alternanza insidiosa di casa/scuola come Scream (1996) e tanti altri.
Ciò che possiamo davvero portare a casa da questo piccolo film ben girato in alcuni suoi passaggi chiave, ma sciatto in tutto il resto, interpretazioni comprese, è l’interessante affondo filosofico e a tratti cerebrale sulle nostre azioni individuali in relazione ad una ipotetica altra realtà o virtualità su cui possono incidere ed influire pesantemente. Il finale, che spezza tra l’altro una freccia alla rottura della tradizione slasher sostenendo che è chi non fa sesso a morire morto ammazzato, teorizza la nascita di un nuovo modello orrorifico, una specie di killer-sharing, in cui chiunque può essere un efferato assassino solo mascherandosi, fuggendo alla riconoscibilità di se stesso, fraudando ogni propria individualità e godendo di una rete solidale di tipo massonico sullo stile delle inquietanti confraternite dei campus americani.
Purtroppo il film è interessante solo nel suo incipit teorico. Lo sviluppo grossolano e incostante non gli permette né di inserirsi con dignità tra i titoli più significati dell’universo horror né in quelli più circoscritti del filone slasher, tantomeno di rubare lo scettro di pellicola horror 2.0, aggiornata e capace di analizzare e rappresentare il nostro presente che è ancora saldamente in mano al primo Saw (2004), ovvero un’ossessione patologica per il dolore e la sofferenza altrui che diventa un’ossessione scopica della tortura altrui, pronta ad essere condivisa in rete, diventando un realtà parallela e distorta in cui le nostre percezioni del mondo e della vita deflagrano senza significato. Di questo, a mio parere, più del torture-porn di Saw, può il gioco cinefilo, il ritmo plastico, la precisione chirurgica dei dettagli e il magazzino di topoi riletti e aggiornati che fa Wes Craven in tutta la quadrilogia dei massacri di Woodsboro.
Sicuramente Smiley si fa ricordare per averci proposto un’idea di assassini plurali, tutti arroganti e boriosi bellocci sicuri di sé e del proprio appeal borghese, di cui il mondo adolescenziale si sta riempiendo ipertroficamente, che mette davvero paura.
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