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Le origini del male

Regia di John Pogue vedi scheda film

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La recensione su Le origini del male

di Bebert
2 stelle

Cosa si salva di questo filmaccio? La musica, forse: ho riascoltato con piacere una cover di "Silver Machine" del gruppo Hawkwind. Ma non basta, ovviamente. Furbo inganno della "storia vera" che vera non è: una pellicola datata in tutti i sensi. L'evento è del 1972 ed è l'"Esperimento Philip", che si svolse a Toronto, non a Oxford. Vi parteciparono otto ricercatori, capitanati dal dottor Alan Robert George Owen. Seduti attorno ad un tavolo cercarono di dimostrare che il paranormale o sovrannaturale o quel che si vuole, è semplicemente una manifestazione di ciò che noi stessi immaginiamo o inventiamo nella nostra testa.


In "Le origini del male", postdatato al 1974, accade che l'esperimento è condotto da soli quattro ricercatori, col medesimo scopo ma con esiti completamente differenti. Tutto è finto: il professore Joseph Coupland (Jared Harris) cerca di  estirpare l'entità "Evey" dalla giovane paziente Jane Harper (Olivia Cooke) e liberarla da un male che essa stessa ha generato. E poi la storia si complica con sette segrete e altri colpi di scena che dovrebbero spaventarci (dal momento che stiamo guardando un horror).

 

Scoraggiato dalla noia e dalla regìa fastidiosa che alterna la cinepresa dei ricercatori a quella effettiva, mi rendo conto che dovrei essere interessato al "gioco" cinematografico del found fotage. E invece no: non mi piace, è interessante come l'intendeva Hegel e cioè una trovata senza effetti duraturi, anche se il regista John Pogue la porta fino al finale. Questo dunque un film del 2014, senza idee, che ripresenta il paranormale senza riuscire a impaurirci perché è mal fatto e non perché il filosofo idealista ci spigò che in un'èra dominata dalla scienza: «Per quanto splendide le effigi degli dèi greci ci possano sembrare, qualunque sia la dignità e la perfezione che possiamo trovare nelle immagini di Dio Padre, di Cristo e della Vergine Maria, tutto ciò è inutile: le ginocchia non le pieghiamo più».

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