Regia di James Marsh vedi scheda film
1973. Il comportamentista Herb Terrace ha un’idea fissa: uno scimpanzé, se cresciuto alla stregua di un cucciolo d’uomo, è in grado di sviluppare un linguaggio. La verifica, che si scopre incerta e quasi implode nel tragico, ha ovviamente la forma di un esperimento: il Project si chiama Nim, dal nome dell’animale, e, se non dimostra la tesi del linguista, ne mostra chiaramente i limiti, suoi e dell’umanità che gli gravita intorno. James Marsch (premio Oscar per Man on Wire) non bada eccessivamente al côté scientifico: se i grafici punteggiano la parabola dell’apprendimento di Nim nel mondo del linguaggio dei segni, sono le parole dette dai protagonisti di fronte alla mdp il vero oggetto del documentario. Perché, figlio del cinema di Errol Morris, Project Nim organizza materiale d’archivio, ricostruzione mimetica, drammatizzazione fiction, dichiarazioni frontali, per raccontare una vicenda straordinaria che svela l’ordinarietà degli uomini, la mediocrità degli ideali, i giochi di potere dei sentimenti, lo scacco di arroganti interpretazioni del mondo (dalla psicoanalisi alla cecità dell’animalismo radicale, passando per l’utopia hippie), sovrastrutture egoistiche che non sanno riconoscere le esigenze dell’altro e tantomeno i propri errori. O i dolori inflitti a Nim, uno scimpanzé, semplicemente.
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