Sarebbe facile liquidare ACAB come un film reazionario, ma la verità è che, ancora una volta, il cinema (di qualità) dimostra quanto siano inadeguate certe categorie ideologiche applicate ad un ambito di tipo estetico. Quante volte ci siamo chiesti: ma questo è un film di destra o di sinistra? Da che parte si schiera il regista? "Sentieri Selvaggi", ad esempio, è un film conservatore o progressista? Personalmente, ritengo che se si riesce a dare una risposta univoca a un quesito del genere, significa semplicemente una cosa: che il film fa schifo. Fa schifo perchè è manicheo, quindi disonesto (oltre che rozzo e semplicistico). Sono quei casi in cui un film adotta per partito preso una posizione, senza mai metterla in discussione, e sottomette storia, personaggi e stile alla dimostrazione della tesi prescelta (cadendo inesorabilmente nella cosiddetta "petizione di principio").
Sia chiaro: questo non deve significare che i registi dovrebbero tutti avere una morale cerchiobottista, per non scontentare nessuno. Rosi e Petri avevano le idee ben chiare: erano comunisti dichiarati. Ken Loach pure. Ma nei loro film migliori, questa presa di posizione non è il punto di partenza, ma semmai il punto d'arrivo: in mezzo, c'è tutta una dialettica, condotta per mezzo di una ricerca sulla forma cinematografica che non è affatto un mero orpello, ma un momento creativo decisivo per rappresentare filmicamente le proprie idee (anche politiche), per analizzarle e anche per metterle in discussione. Non ha senso quindi parlare, beceramente, di film di destra e film di sinistra, ma semplicemente di film validi e di spazzatura.
ACAB rientra nella prima categoria. Certo, il punto di vista è quello dei celerini, ma ciò non significa che tutto si risolva in una apologia indiscriminata del mestiere di poliziotto. La realtà è complessa e Sollima non la semplifica. Anzi, il tormentone del film è il coro "celerino figlio di puttana", cantato auto-ironicamente e fischiettato dagli stessi sbirri; una dichiarazione d'intenti da parte del regista, come a dire: fanculo all'ipocrisia. C'è lo sbirro tutto d'un pezzo, uomo d'ordine dalla morale discutibile ma sempre leale nei confronti dei colleghi (un Favino del tutto in parte); c'è il veterano incattivito alle prese con il figlio neo-fascista; c'è il razzista grondante odio xenofobo da tutti i pori; c'è il padre di famiglia mollato e umiliato dalla moglie opportunista cubana; c'è infine la matricola, dubbiosa, impaurita, perplessa, coscienza critica del mondo poliziesco. Sollima concede il giusto spazio a tutte le diverse campane, senza forzare, senza sottolineare: sarà lo spettatore a trarre le sue conclusioni. Un procedimento non così dissimile da quello di un altro presunto reazionario, il vecchio Clint.
E' ammirevole la capacità del regista di gestire lo sviluppo psicologico e narrativo di ogni personaggio, lavorando raffinatamente sul montaggio alternato e mantenendo un tono di asciutta e virile pietas, che si tiene ben lontano da piagnistei e derive inutilmente enfatiche. Ma ancora più significativo è il fatto che il film parta con modi da poliziesco d'azione (con pagine degne di un Siegel, per concisione ed efficacia), per poi prendere gradualmente una piega più ambiziosa e più politica, inglobando nel suo percorso casi scottanti (e attuali) come la memoria dei fattacci del G8 di Genova, i casi Sandri e Raciti, fino alle questioni degli sfratti, dei rom, dell'estrema destra. C'era davvero il rischio di fare un pasticcio, il classico passo più lungo della gamba. E invece Sollima riesce a non perdere il filo del discorso, finendo anzi per rilanciarlo continuamente e per dargli sempre maggior spessore, maggior rilievo sul piano sociale e ideologico.
Combinando la solidità del cinema di genere con la complessità del film-saggio-affresco su una fetta del mondo istituzionale bistrattata dai media (da una parte, per eccessiva esaltazione, dall'altra, per cieco dileggio), condensando abilmente episodi significativi della recente Storia italiana, Sollima alza la tensione con lo scorrere del minutaggio, ma il climax non arriverà mai e il finale sarà necessariamente sospeso: non c'è catarsi, la rabbia cresce, si accumula, sino alla prossima sommossa, ennesima "guerra dei poveri". C'è una sequenza magistrale, straniante che riassume forme e contenuti di ACAB: il blitz "in borghese" alla sede dei neo-fascisti sulle note dei Pixies. "Where is my mind?" si domanda il cantante Frank Black. Non credo sia casuale la scelta del pezzo: i celerini stanno facendo una follia, che pagheranno caro. Ed è in questa scena che si concretizza il concetto pasoliniano dei poliziotti "figli del popolo": uno sbirro si ritrova a dover manganellare suo figlio. Un corto-circuito che sintetizza la fertile ambiguità del film di Sollima, onesto e lucido riflesso delle contraddizioni di un intero sistema.
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