Regia di Stefano Sollima vedi scheda film
Di ACAB si è già detto di tutto. Ovviamente, come è costume di questo Paese, la si è buttata in politica, perché in Italia tutto è politica, anche come si mangia un piatto di spaghetti. Beninteso, per politica non mi riferisco a chissà quale alto modello, e senza nemmeno scadere nella più imperante e squallida demagogia populista, per politica intendo il tifo. E allora l’obiettivo principale dei commentatori dell’esordio cinematografico di Stefano Sollima era uno ed uno soltanto: da che parte si schiera il film, tratto da un controverso libro di Carlo Bonini?
Una volta appurato che i tre sceneggiatori Barbara Petronio, Daniele Cesarano, Leonardo Valenti hanno fatto una legittima e sacrosanta operazione di cerchiobottismo, tutti contenti: i celerini sono violenti, ma hanno anche le proprie ragioni; gli antagonisti (che siano ultrà, teppisti o picchiatori, fa lo stesso) se le cercano, ma sono anche indifesi. Insomma, per fortuna, il film non si schiera né da una parte né dall’altra nonostante sia filtrato dall’ottica dei poliziotti e ne racconti sostanzialmente le vite di quattro di loro: Cobra, che vive il proprio lavoro come una missione e guai a toccargli i colleghi, cioè i fratelli; Negro, padre e marito distratto sull’orlo di una crisi di nervi; Mazinga, con un figlio incompreso e una gamba fuori uso; e Costantini, l’ultimo arrivato, che ha scelto la Celere solo per lo stipendio.
Il contesto è quello della Roma di inizio millennio colta nel momento dell’ascesa al governo cittadino di Alemanno (ma c’è spazio anche per le morti di Filippo Raciti, il poliziotto che perì dopo un Catania-Palermo, quella dell’ultrà laziale Gabriele Sandri dello stesso anno e della signora Reggiani, vittima di uno stupro), dominata dall’odio razziale e da un nervosismo palpabile. Una storia vera non c’è, c’è soltanto tanta carne al fuoco non sempre cucinata bene, un mucchio di episodi amalgamati in maniera anche fragile che, se da una parte aiutano a capire come funziona il lavoro del servizio d’ordine in un modo concitatamente appropriato, dall’altra apre troppe strade, accenna a troppe cose, si ingarbuglia in troppe situazioni.
Per esempio, era evitabile la scenata di fronte a Montecitorio del pur bravissimo Filippo Nigro? Sì, per un motivo molto semplice: esaspera un personaggio già esasperato. O le mille, populistiche, pleonastiche allusioni (detta una, due, tre, quattro volte mi sta bene, ma poi stufa pure me) all’Italia in mano a gente che non ha rispetto dello Stato. La pista che porta alla rievocazione della macelleria messicana alla scuola Diaz durante il G8 è quella più convincente anche per merito di un maiuscolo Marco Giallini (con sorpresa finale nella piazza in cui si svolge l’ultimo scontro).
A conti fatti, il film di Sollima, per quanto diretto con piglio irrequieto e teso e di certo non disprezzabile, mi sembra un’occasione mancata che ha il suo difetto nel manico: una sceneggiatura che avrebbe potuto e dovuto osare di più (e non alludo alla politica: un cinema partigiano contro i celerini è fin troppo facile, a favore dei celerini risulterebbe provocatorio) ed evitare il disordinato mosaico di esperienze che colloca, giusto per dire una cosa banale, prima l’elezione di Alemanno e poi la morte di Sandri per – credo – esclusivi fini di scrittura.
Ma la cosa meno convincente è il predicozzo che Costantini (Domenico Diele, una rivelazione) fa in bagno a Cobra nei pressi del finale, come a voler dare al pubblico una specie di morale della storia che cozza con l’idea di fiducia del superiore ma non con il principio di onestà di un italiano normale. In ogni caso, un film non più che discreto che ha il suo punto di forza nell’ottimo quintetto di protagonisti (c’è anche un ex celerino cacciato dal reparto impersonato da Andrea Sartoretti, l’indimenticato Bufalo del Romanzo criminale televisivo diretto da Sollima) capitanato da un ringhioso ed eccellente Piefrancesco Favino.
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