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Killer Joe

Regia di William Friedkin vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Killer Joe

di miss brown
8 stelle

Nel 1976 Ettore Scola vinse a Cannes il Premio per la Migliore Regia con BRUTTI, SPORCHI E CATTIVI, in cui si raccontava di Giacinto, un monumentale Nino Manfredi, tirannico patriarca di una sterminata famiglia di immigrati pugliesi in una baraccopoli romana che riceveva un milione di indennizzo per la perdita di un occhio, e dei grotteschi tentativi dei suoi familiari di impadronirsi del malloppo. Però qui non siamo a Roma ma in Texas, e come disse John Wayne i texani hanno la fama di voler fare ogni cosa molto più in grande degli altri, e in questo caso è tutto molto, molto peggio.

Sono white trash, straccioni bianchi i protagonisti di KILLER JOE. Non quelli che i sociologi definirebbero sottoproletariato urbano, termine che dà comunque un minimo di dignità alla categoria: pur non essendo autentici criminali sono veri rifiuti della società, non tanto poveri quanto miserabili, persone ignoranti, ottuse e amorali. Eppure su di un gruppo di personaggi così moralmente ripugnanti il 25enne attore-commediografo Tracy Letts è riuscito a scrivere nel 1990 una commedia che, tradotta in 15 lingue, ha trionfato in ogni parte del mondo e dalla quale William Friedkin ha tratto ora un film di sublime umorismo nero, un capolavoro di sarcastica ferocia.

 

La famiglia Smith vive in uno squallido villaggio di case-mobili alla periferia di Dallas, Texas. Lo stralunato padre Ansel fa il meccanico in un'autofficina; la sua seconda moglie, la sguaiata ex-bellona Sharla, fa la cameriera in un bar; con loro vive la 18enne Dottie che, finito il liceo, passa le giornate in casa tutta sola guardando tv spazzatura. E poi c'è il 21enne Chris, che vive con la madre tossica e alcolizzata, uno per cui vale l'immortale principio della Legge di Murphy: se qualcosa potrebbe andare storto, lo farà.

Il povero Chris aveva un allevamento di conigli, ma una notte una volpe o una faina è entrata nel recinto, nel giro di qualche giorno tutti i conigli si sono ammalati e ha dovuto abbatterli. Così, per alzare qualche soldo, ha accettato di vendere della coca per dei pusher di sua conoscenza: ma la madre ha trovato il pacchetto, si è venduta la roba e quando lui glie ne ha chiesto ragione l'ha cacciato di casa. Ora Chris deve 6.000 dollari agli spacciatori e non ha idea di come procurarseli. O meglio, un'idea ce l'avrebbe: la madre ha un'assicurazione sulla vita di 50.000 dollari, beneficiaria la giovane Dottie. Padre, figlio e matrigna sono d'accordo: bisogna ammazzare mamma. Attraverso il compagno di bevute Rex si mettono in contatto con Joe Cooper, poliziotto di mestiere e artista dell'omicidio su commissione, che accetta di fare un lavoro pulito per 25.000 dollari. Chris e Ansel vorrebbero pagarlo “a mamma morta” ma lui non ci sta, pretende una caparra, e l'affare sembra sfumare. Poi però Joe conosce Dottie e istantaneamente se ne invaghisce; si installa perciò a casa degli Smith perché sarà lei la sua caparra, la dolce, bianca, vergine Dottie, la piccola sonnambula che tutti sembravano voler proteggere credendola un po' ritardata, mentre ora accettano di prostituirla in nome del bene comune. Lei invece ha capito perfettamente la situazione, anzi l'approva e la condivide: quand'era piccolina la madre ubriaca tentò di soffocarla con un cuscino, e lei se lo ricorda.

Nonostante il tardivo pentimento di Chris l'operazione “ammazza la mamma” viene completata, ma quando si tratta di incassare l'assicurazione com'era prevedibile salta fuori un intoppo.

 

La vera sorpresa di questo film è Matthew McConaughey. Dimenticate i riccioloni biondi, qui lisciati, scuriti e nascosti sotto lo Stetson nero, e gli addominali mirabilmente scolpiti, che non ha mai lesinato di mostrare alla minima occasione fino all'apoteosi del recente MAGIC MIKE, ora celati sotto un'abbottonatissima camicia nera: il simpatico giovanotto, l'amabile canaglia, l'eterna promessa attoriale mai veramente mantenuta ha trovato finalmente in Joe Cooper la parte della sua vita. Elegante, seducente, con lo Zippo che scatta nervosamente nelle mani guantate, sempre pronto a colpire con la rapidità di uno scorpione, Killer Joe si insinua come un predatore nella famiglia Smith, li circuisce, ne coglie le debolezze. A lui McConaughey presta un enorme capitale di finezza interpretativa, dall'eroticissima scena della seduzione di Dottie fino all'impressionante brutalità nel sanguinoso finale.

Nessuna sorpresa invece per l'abituale altissimo livello interpretativo degli altri quattro protagonisti. Gina Gershon è la volgare, sboccata, adultera Sharla dal trucco eccessivo sempre sbavato, o del tutto discinta, o con vestiti troppo appariscenti e troppo scollati da vamp di reality-show. Thomas Haden Church è lo straccione, inaffidabile padre di famiglia, gli occhi azzurrissimi e il cervello annebbiati da anni di alcool. Emile Hirsch è il povero stupidone Chris, ex-quasi-bravo-ragazzo trascinato in una spirale discendente da cui proprio non riesce ad uscire anche se si dibatte caparbio fino alla fine. Juno Temple è la piccola non così candida Dottie, all'inizio totalmente inconsapevole del suo sex-appeal, che con la perdita della verginità guadagna in crudeltà e determinazione.

 

L'unico punto di vista che può rendere tollerabile la visione di questo film è l'ottica della black-comedy, e William Friedkin la persegue fino alle estreme conseguenze. E' un regista che non si è mai tirato indietro davanti alla rappresentazione della violenza, che è stata protagonista dei suoi capolavori cinematografici (IL BRACCIO VIOLENTO DELLA LEGGE, L'ESORCISTA, CRUISING, VIVERE E MORIRE A LOS ANGELES) fino alle più recenti incursioni nella regia televisiva (MASCARA, episodio 200 di C.S.I.). Eppure qui è molto più feroce di quanto sarebbe ragionevole aspettarsi da un rispettabile signore che ha abbondantemente superato la settantina e che ha dedicato gli ultimi 15 anni per lo più alle regie liriche (mica robetta, fra le altre WOZZEK di Alban Berg al Maggio Musicale Fiorentino, AIDA di Verdi al Regio di Torino, I RACCONTI DI HOFFMANN di Offenbach all'Opera di Vienna).

Prende una storia tragicamente seria e ce la rivolta sotto il naso come un calzino fotografando spietatamente un mondo senza pietà, dove ogni valore è capovolto, dove ogni vestito è lacero, ogni strada è lurida, ogni muro è scrostato. Usa lo sberleffo al posto dell'analisi sociale e lo sghignazzo osceno a sommergere ogni moralismo ipocrita, e colpisce assolutamente nel segno.

 

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