Regia di Matteo Rovere vedi scheda film
Méte (l’acerbissimo Andrea Bosca) e Belinda: hanno un padre in comune (il gigionesco Massimo Popolizio, nel ruolo di un allenatore di calcio!) e, sullo sfondo, una Roma liquida, che sfugge loro di mano, come del resto quasi tutto ciò che rimane delle loro vite agiate e senza pensieri. Lui è un grafologo: insieme a Bruno (interpretato da Claudio Santamaria, l’unico a salvarsi in questo pasticciaccio brutto), rileva i caratteri delle persone attraverso la scrittura. I due fratellastri, perdipiù, sono attratti l’uno dall’altra. Mentre gli amici e i conoscenti che gravitano intorno, trascorrono le loro giornate fra canne, indolenzite ore sul divano e qualche party “selvaggio” dove raccattare la scopata di turno (capita a Méte e a Damia- no/Michele Riondino, nelle grinfie di una matta Beatrice: una sconcertante Asia Argento). Il filmetto - ricavato dall’omonimo romanzo di Sandro Veronesi (Fandango Libri) - è un festival (sbiadito più del solito) degli endemici difetti del cinema italiano “d’autore” contemporaneo: sceneggiatura banale e zeppa di vuoti narrativi, messa in scena priva di qualsiasi slancio o idea, recitazione al di sotto del minimo garantito. E con una sequenza scult in cui il citato Popolizio, con la famiglia a “festeggiare” il proprio matrimonio per le antiche vie della Capitale, si mette a cantare Più bella cosa di Eros Ramazzotti: pornografia allo stato puro.
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