Regia di Stephen Quay, Timothy Quay vedi scheda film
Le animazioni dei fratelli Quay vogliono rieducare lo sguardo, disabituandolo ai parametri consolidati, mediante lo strumento del sogno: quest’ultimo va inteso non come imitazione della realtà, bensì come sua reinvenzione, secondo principi logici ed estetici completamente nuovi, ed incomparabili con quelli che normalmente si applicano alla trasposizione artistica del pensiero e della percezione. Lo sguardo – e, attraverso di esso, la mente – viene posto di fronte ad un racconto per suoni ed immagini presentato in una lingua sconosciuta, che non può essere compresa, ma solo apprezzata come inedita esperienza sensoriale, che testimonia la possibilità di espressioni totalmente alternative rispetto a quelle usuali. In questo caso, il pettine è un oggetto concreto e familiare che perde la propria natura di utensile per diventare la chiave d’accesso ad un mondo onirico dalla struttura intraducibile in parole. La sua forma a barre richiama le ritmiche dicromie di M. C. Escher, riprese da altri elementi del film ed, in particolare, dal motivo ricorrente della scala a pioli, e chiamate a rappresentare, come nelle più famose opere del pittore olandese, l’incoerente continuità tra sopra e sotto, tra dentro e fuori, tra illusione ottica e deformazione prospettica. Il movimento della onnipresente bambola rotta - ormai eletta a simbolo della cinematografia dei Quay – è un’esplorazione cubista della spazio, che non trova mai nulla di nuovo, perché non fa altro che ritrovare il noto, inquadrato secondo una diversa angolazione. I versi del poeta svizzero Robert Walser ci introducono in un enigmatico paesaggio campestre, al limitare di una foresta, in un momento imprecisato dell’autunno: questa premessa rinvia all’idea di indeterminatezza, di una soglia che forse è quella che separa la realtà dall’apparenza, o forse la materiale concretezza (i denti del pettine, che districano i capelli) dall’astrazione che si libra al di sopra del dato immediato e banale (i denti del pettine suonati da un’unghia come le corde di un’arpa). The Comb è carico del tipico lirismo opaco che vede tutto attraverso un vetro smerigliato, o forse coperto di fuliggine; e ci prospetta una bellezza che non corrisponde a nessun canone estetico, eppure si coglie a prima vista, pur nella nebulosa incertezza di ciò che non è riconoscibile.
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