Regia di Kaushik Mukherjee vedi scheda film
In lingua hindi si dice Gandu. Un insulto rivolto agli emarginati, ai buoni a nulla, che non lavorano e non sanno cosa fare della propria vita. O forse, invece, lo sanno eccome, e magari meglio di tutti gli altri. Perché, stando in disparte ad osservare, si rendono conto che l’infelicità è solo frutto della dilagante stupidità, che rende ridicolo e banale ogni gesto, ogni parola, ogni singola manifestazione della cosiddetta normalità. Gandu è lo spettatore di una realtà così convenzionale da essere grottesca, e dalla quale ci si può salvare soltanto guardandola di traverso, con un’occhiata sospettosa ed un atteggiamento di sfida, come un nemico al quale non è consentito voltare le spalle. Quel ragazzo disadattato e ribelle fissa il suo avversario aspettando il momento giusto per colpirlo, a tradimento, con le sue animalesche acrobazie, quelle improvvisazioni rap che infrangono il torpore della mediocrità per spargerne le schegge in un artistico salto mortale. Le musiche di Gandu uccidono l’ipocrisia dei benpensanti. Sono i battiti selvaggi di un genio che fa dell’istinto una creativa forma di intelligenza, un’energia pensante e scalmanata che inventa, agisce e urla mentre il resto dell’umanità è ordinatamente (e goffamente) indaffarato nelle sue solite questioni. La visione furtiva di quel giovane è uno strappo nel quadro della quotidianità, un’incursione vandalica che profana i luoghi comuni con una stravaganza strisciante, che, provocatoriamente, si compiace di conformarsi ai pregiudizi consegnandosi al degrado morale, al crimine, ai vizi. È come giocare con ciò che gli altri prendono (troppo) sul serio, arrivando così, a godersi davvero i piaceri che, per la maggioranza, sono invece ridotti a noiose abitudini. La trasgressione è un abbandono fantasioso e consapevole, che costruisce l’emozione rimuovendo i limiti e cavalcando le ansie e le paure. Anche l’abbrutimento può diventare, così, un’esperienza eroica, con sfumature di trascendenza e venature mitiche. La leggenda delle arti marziali si presta ad una ritualità caricaturale che è un misto di poesia satirica e parodia religiosa: Ricksha, l'amico di Gandu, la pratica come una sorta di sfogo beffardo e individualista, che rifiuta i composti canoni delle discipline a sfondo mistico per celebrare la libertà del corpo. La stessa che Gandu insegue ai bordi delle strade, negli angoli della sua casa, nei posti più squallidi e impensati, dove l’ebbrezza è poter guardare al cielo dal basso, dal livello sotterraneo dell’esistenza. Lì in fondo la musica è un rumore appassionato e caotico, che non molla mai e continua ad esaltare la diversità come fonte di illimitate possibilità compositive. L’essere invisibile può tranquillamente violare le regole dell’armonia, frullando frammenti di percezione e tripudi dell'immaginazione, in un festival in cui l’incoerenza è una primitiva forza generatrice. In Gandu lo scandalo prende la forma di una danza ritmata dall’impulso di affermare la propria alterità. Intanto la presunta inadeguatezza si impone, sull’ovvietà, come una prospettiva privilegiata: un punto di vista superiore e neutrale, che inquadra la futile piccolezza di un mondo che, pur di procedere indisturbato, rinuncia persino alle più semplici gioie d’amore. In questo bianco e nero che omaggia in maniera irriverente i classici del cinema indiano, la polemica sociale è tagliuzzata e ricomposta in un patchwork che strizza l'occhio al politically incorrect, mentre stoicamente affonda nella molle, ed amarissima, poesia degli incompresi.
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