Regia di Mario Soldati vedi scheda film
Una divertente, mossa, realistica e commuovente denuncia della corruzione della società italiana. Si era nel 1863: non è cambiato poi granché, in questo secolo e mezzo e più di Italia unita.
Il soggetto, del piemontese (questo film restituisce poi ottimamente e in modo filologico la sua regione) Bersezio, è evidentemente notevole, per la fama che ha (anche se non l’ho mai visto recitare né letto). Assai moderno per l’epoca, tratteggia la burocrazia e il ceto medio, aspetti nuovissimi allora in una società che conosceva per la prima volta sia uno stato forte (almeno sulla carta) sia l’ascesa della borghesia, compresa quella piccola come qui, quella impiegatizia.
Il protagonista non ha vizi reali, se non quello di essere troppo buono, oltre a questo: il disprezzo sociale verso persone che fanno un’attività manuale. L’ascesa sociale, che porta anche a discriminare chi non lavora nel terziario, era agli albori, ed è ben presentata.
Ben riuscita la batteria delle donne, avvenenti. Tra di loro si distingue la serva furba e soprattutto la matrigna arrogante ed insopportabile, capace di mandare sul lastrico una famiglia solo per la vanità delle sue pose, da signora altolocata che mai è né potrà essere, frustrata. Pessima madre, inoltre, di un figlio che vizia.
Indimenticabile un 25enne Sordi, nei panni – a lui congeniali (ma quali panni non gli furono congeniali?) dell’insopportabile seccatore arrivista all’italiana, per il quale le posizioni si conquistano con la fatica non del duro lavoro, ma con la fatica del servilismo e dell’apparenza.
Notevole pure il ritratto di Cervi: burocrate alla fine irreprensibile, corretto, uomo di stato che non tollera ingiustizie e disuguaglianze, alieno da corruzioni. A metà ‘800 un personaggio così rappresentava (fortunatamente) il nuovo, e Bersezio quasi lo idealizza. Di lì a poco (col sempre piemontese De Pretis, dal 1876), la classe dirigente tricolore si distinse sempre per non poter più rinunciare alla corruzione e all’illegalità. Fino ad oggi, con rare e per di più calunniatissime eccezioni, continuiamo a patire e votare i delinquenti, offendendo gli onesti.
Ottime la scenografia e i costumi, nonché il trucco, così decisivo nel tratteggiare lo stile particolarissimo di un’epoca passata ormai perduta, già quasi un secolo dopo (il film uscì nel ’45).
Riuscito pure l’intreccio tra l’alta società (o sedicente tale), e il popolino, rappresentato anche dall’arricchito panettiere.
Veloce, la sceneggiatura è impreziosita soprattutto dal ritratto del dimesso, asservito protagonista, eternamente prono anche se non silente di fronte alle costanti ingiustizie subite. Luigi Pavesi è straordinario nell’interpretare la figura laida del suo superiore: il classico capetto da ufficio all’italiana, capace di abusare del suo potere per compiere scorrettezze di ogni genere, e di promuovere i lazzaroni leccapiedi anziché i lavoratori seri che però non hanno il difetto di essere scorretti, e che perciò sono penalizzati dalle proprie virtù.
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