Regia di J.C. Chandor vedi scheda film
Parata di divi da urlo, ma il principale elemento di interesse forse è nell'intreccio tra forma e contenuto, dove l'eleganza degli ambienti e dei tipi umani diventa metafora di un cinismo patinato. Personaggi in balia di un mondo che non capiscono e non riescono a rappresentare col linguaggio. Se nulla sarà come prima, dopo di noi il diluvio.
Parata di divi da urlo, tra graditi ritorni e qualche occasione sprecata, ma gli elementi di interesse forse sono altrove. Nell'attualità del tema trattato, naturalmente, e nell'accorta regia dell'esordiente Chandor, ma ancora di più nello stesso suggestivo intreccio tra forma e contenuto. Si pensi alla fotografia di Frank DeMarco, dove alle trasparenze vitree degli interni si alterna il baluginio notturno di una Grande Mela dove tutto all'apparenza è lusso e nitore, ma in ascensore si ignora deliberatamente la donna delle pulizie immobile col secchio della spazzatura. L'eleganza degli ambienti e dei tipi umani diventa metafora di un cinismo patinato, cui l'ex sex symbol Jeremy Irons presta un volto ormai vizzo e una caratterizzazione manierata ma funzionale alla narrazione. Fanno da contraltare il sobrio agnosticismo di Kevin Spacey, disilluso ma lungi dall'essere senza macchia, e la rassegnazione appena indignata di Demi Moore, offerta come vittima scarificale sull'altare del profitto. Dialoghi brutali come si conviene, gergo tecnico mescolato a un secco turpiloquio, personaggi stessi in balia di un mondo che non capiscono e non riescono a rappresentare col linguaggio. "Spiegamelo come se lo spiegassi a un bambino", chiede il grande capo Tuld, ché non è più tempo di ingombranti tecnicismi. Rimane solo la percezione, prima solo aleggiante nell'aria poi sempre più nitida, che nulla sarà come prima. Donde il margin call, il tentativo di piazzare il più velocemente possibile tutto ciò che c'è di infetto, e dopo di noi il diluvio.
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