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Margin Call

Regia di J.C. Chandor vedi scheda film

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La recensione su Margin Call

di EightAndHalf
8 stelle

Il denaro non dorme mai, né si ferma. L'uomo ha creato un mostro con tante teste, un'idra destinata a riformarsi e a ripetersi incessantemente nei suoi fallimenti e nei suoi sollevamenti. Margin Call è un vero e proprio film catastrofico, un equivalente di 2012 senza tsunami né terremoti, perché qui a morire (non per sempre) è un'astrazione irrangiungibile, incontrollabile, di cui i più esperti non sanno prevedere il prosieguo. "E' solo denaro, fatto apposta per non scannarci nel momento di doverci procurare il cibo": sono parole di Jeremy Irons, alla fine delle strazianti ultime ore prima della bancarotta di una società di investimenti, che si accorge, dopo ben due settimane di pieno tracollo, di essere sulla strada che porta diretta a una perdita superiore alla capitalizzazione della società stessa sul mercato. Denaro che si ritorce su sé stesso, denaro che tradisce e muove le nostre vite, denaro da tutte le parti. Il risultato di questo denaro è tanta gente con villa e benessere, la gente che vive nei piani alti, che osserva con sufficienza l'affannata e grigia metropoli costantemente sullo sfondo, una metropoli che non dorme mai, con luci e estesissime finestre che invitano a buttarsi di sotto. La distopia cybercapitalistica di Cosmopolis non è più un incubo metallico di cui abbiamo paura, e che esorcizziamo con ricchezze ostentate. L'unica differenza è che adesso è verità, si verifica "concretamente", per quanto concreto possa essere tale enormità, tale mastodontica creazione. 

L'umanità è costretta in uffici, tetti (un discorso ricorda il drammatico finale di Blade Runner, "lavoro qui da anni e ho visto cose che voi altri non potete immaginare", mentre lo sguardo del personaggio si rivolge al fondo indefinito e buio di qualche strada di Brooklyn diversi chilometri più giù), parcheggi, strip-club. Scopre lentamente la propria condanna e, soprattutto, la condanna di tutti gli altri. E alla fine, paradossalmente, non è cambiato niente. Lutto e morte sbucano nella conclusione, quando finalmente Sam (Kevin Spacey) fa un lavoro di cui "vede i frutti", (si) scava una fossa. Per fortuna ci sono questi e altri scarti romanzati nel film: per i primi quaranta minuti si sfiora il film a tesi o, ancora peggio, l'intento puramente illustrativo; poi la tensione sale alle stelle, creata da una regia non invadente e che spennella carrellate sugli uffici affollati e che sbircia volti contriti e ricchi di dubbi; infine i personaggi trovano il loro spazio (paura del lincenziamento, ripensamenti etici, menefreghismi dilaganti), diventano dinamici, e capiamo molte cose insieme a loro. Il film, alla fine, tentennando, funziona, e riesce a lasciare, giustamente, una certa dose di amaro in bocca.

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