Regia di Sergio Corbucci, Antonio Margheriti vedi scheda film
Siamo in un periodo di passaggio cruciale e storico per il cinema italiano, il primo lustro degli anni '60 (prima ancora delle contestazioni del '68): tira aria di rinnovamento che si vuole distanziare dal paludamento delle convenzioni, le leggi in materia di censura e "buon costume" conoscono qualche modifica e registi e produttori colgono la palla al balzo osando di più nel campo del mostrabile e nelle allusioni, senza esagerazioni ma con elementi già destabilizzanti per quanto riguarda la dicotomia tra rigida moralità religiosa, regole sociali e desiderio conturbante del misterioso e del nascosto.
Nel 1960 Mario Bava dirige l'audace La maschera del demonio, mescolando orrore, sensualità, gioco morboso tra peccato e rettitudine cristiana. Nel 1964 Antonio Margheriti (con lo pseudonimo Anthony M. Dawson) rimpiazza Sergio Corbucci per Danza macabra, horror gotico che ripropone l'icona del genere, la B. Steele del film baviano. Margheriti ha detto di considerare datato il suo Danza macabra, eppure credo che il film abbia ancora ottime carte da giocare anche a molti anni di distanza per merito della notevole cura tecnica e stilistica, per il trattamento di temi umanamente universali, nonostante la particolarità del genere e del contesto culturale.
Danza macabra è un affondo inquieto nell'inconscio e nel mistero della morte, certo declinato con l'uso della fantasia ma comunque capace di interpellare le nostre paure e le nostre attrazioni e repulsioni. La cornice narrativa con il giornalista scettico Alan Foster (G. Rivière), il famoso scrittore Edgar Allan Poe (Silvano Tranquilli/Montgomery Glenn) e Lord Thomas Blackwood (Umberto Raho/Raul H. Newman) introduce la dicotomia tra razionalità ed eventi soprannaturali, tra una realtà calcolabile e una realtà/irrealtà che segue leggi proprie, tra "professioni tecniche", cronaca e arte. E proprio Poe, parlando di arte, dichiara che la cosa più poetica è l'immagine di una donna morta, metafora del legame tra la morte e la bellezza; la sensibilità artistica malinconica è quindi capace di capire il fascino della morte, è il mezzo per connettere due mondi, di prendere il posto della corruttibilità del corpo.
Il fulcro della vicenda è la casa maledetta, essa delinea una Zona morta vivente, un luogo isolato dalla temporalità esterna e che rimaterializza gli spiriti in corpi soggetti però ad un eterno ritorno come fossero in un limbo, causa la morte avvenuta in circostanze particolarmente intense per l'attività dei sensi: i sensi sono la parte tra corpo e anima che tormenta anche dopo la morte, sono, come l'arte, ciò che lega gli estremi e guarda caso, ancora, l'arte passa tra la percezione sensibile e quella mentale. Chi entra nella casa, quindi nel segreto, è ormai parte di essa: le basi razionali consolidate si sgretolano, una nuova conoscenza è in atto e non si può regredire, pena un corto circuito che porta alla follia e all'incomprensione e solo l'arte può manipolare e competere con i paradossi. Come Alan dovrà soccombere mentre tenta di uscire dalla zona, così anche Elisabeth (B. Steele) svanirà il suo pseudocorpo, quell'apparenza tenuta in pseudovita dalla fame di sangue e d'amore.
La bellezza paradossale del macabro è evidenziata dal bianco e nero intensissimo curato da Riccardo Pallottini/Richard Kramer, dalle penombre scaturite dai forti contrasti tra luci di candela e dense oscurità. Inoltre dai riferimenti erotici non solo tra Alan ed Elisabeth, ma anche dalla relazione extraconiugale, dalla sensualità dei torsi nudi (non solo maschili, ma anche un seno femminile, fugace ma chiaramente visibile e quasi frontale) e soprattutto dalla esplicita attrazione lesbica di M. Robsham per la Steele, dagli occhi grandi che sembrano corvi in volo e dal fascino sinistro, in bilico tra delicata bellezza e crudele bruttezza. La lentezza narrativa e i piani-sequenza sostengono il senso di attesa e l'atemporalità dell'atmosfera. Certo gli spaventi non fanno presa come una volta, ma la qualità artistica protegge sicuramente il valore del film. 8
La musica di Ri(t)z Ortolani è un altro punto di forza: chiaramente ispirata (o almeno posso presumere) dagli stridori e dalle strappate degli archi usati da Bernard Herrmann per Psyco, è un tappeto che commenta tutto il film con note acute e lunghe dei violini, aspri tremoli, melodie minacciose, cupi rintocchi degli strumenti gravi, ritmi spezzati e impetuosi accordi, mentre ha un ruolo timbricamente importante il tereminovox (o teremin, o therevox ecc. - e sempre che l'orecchio non mi inganni), strumento elettronico con oscillatori a frequenze radio inventato da Lev Teremin (1896-1993), usato sporadicamente in composizioni classiche ma che ha avuto fortuna nei film dell'orrore proprio grazie alle qualità sinistre e lamentose delle sue emissioni, modulate dai movimenti della mano destra nel campo delle onde radio generato da una delle antenne. Clara Rockmore e Lydia Kavina sono state due virtuose di questo misterioso e impalpabile strumento.
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