Regia di Peter Weir vedi scheda film
The way back, ispirato a una presunta storia vera, forse non è il film migliore di Peter Weir, il regista australiano de
L’attimo fuggente,
Master e commander. Sfida hai confini del mare,
Picnic ad Hanging Rock.
È comunque un bel film, di notevole impatto emotivo e visivo, senza autocompiacimenti nonostante le immagini suggestive degli esterni, che al di là di ciò che rappresenta e denuncia – il comunismo con le sue atrocità, le torture, la tragedia dei gulag in cui si rinchiudevano gli oppositori al regime o semplicemente i liberi pensatori, luoghi di cui in realtà si sa pochissimo e a stento riusciamo a immaginare cosa volesse dire finirci dentro – ha anche una valenza simbolica, nel viaggio come fuga verso la libertà, miraggio lontano e quasi irraggiungibile, oasi di pace che si conquista a caro prezzo, spesso con la morte.
Non sappiamo neppure cosa voglia dire camminare per oltre 5000 chilometri, tra le nevi della Siberia, attraverso la natura più ostile e nemica, con pochi mezzi, senza cibo né acqua, passando tra boschi, pianure sconfinate e deserti riarsi nel disperato tentativo di raggiungere l’India e la libertà fisica e mentale.
Forse non lo sa neppure il regista che ce lo lascia solo intuire dalle piaghe ai piedi, le labbra spaccate, la pelle scottata, i corpi disidratati che cedono alla fatica disumana.
Così un gruppo di uomini, a cui si aggiungerà una donna, figura che porterà un po’ di dolcezza e tenerezza in cuori che dovrebbero essere induriti dalla terribile esperienza del gulag, tentano questa disperata avventura. Diversissimi fra loro, per origini, cultura, sentimenti, saranno obbligati a collaborare, a cercare l’appoggio dei compagni per sopravvivere, a superare diffidenze e sospetti, perché si dipende gli uni dagli altri.
Forse le motivazioni che li muovono sono diverse, ma sono necessarie per non arrendersi e restare vivi.
Janusz, (Jim Sturgess forse l'attore più tiepido del gruppo) un polacco accusato di essere una spia sulla base di false testimonianze estorte alla moglie sotto tortura, è mosso dall’amore come si scoprirà alla fine; Mr Smith è un americano tormentato dal suo passato interpretato da uno splendido e convincente Ed Harris, e Colin Farrel ben calato nella parte di Valka, un delinquentello che porta tatuati sul petto i profili dei dittatori sovietici, che forse della vera libertà ha paura, perché non sa gestirla, sa muoversi solo nel suo piccolo mondo brutale e violento, e crede nel comunismo perché non conosce altro, né altro gli hanno insegnato. Un personaggio apparentemente contraddittorio e sorprendente quello di Farrel, eppure credo abbastanza verosimile, che non mi è dispiaciuto.
Indubbiamente nella sceneggiatura che vorrebbe essere realistica, qua e là c’è qualche debolezza e gli stessi personaggi a volte sembrano un po’ troppo spensierati per la situazione drammatica che si trovano a vivere, quasi fossero turisti in gita di piacere, ma è una sensazione che personalmente ho trovato molto labile.
Alla fine, di un gruppo numeroso di uomini, solo in tre raggiungeranno la meta.
Non mancano i momenti emozionanti e secondo me struggenti, e anche il finale benché sia forse eccessivamente affrettato e costruito con immagini di repertorio in bianco e nero, mi ha toccata.
È un film che nel complesso si salva e credo merita di essere visto e apprezzato.
Fa la parte di Valka, assassino che nel gulag sembra spietato e freddo verso i compagni, ma nella fuga assume un altro comportamento, diventando collaborativo. Non mi è parso così fuori parte come è stato detto.
Nel gruppo pare quello più motivato e determinato, nonostante l'apparente docilità di carattere. Dovrebbe emergere sugli altri come guida, ma l'interpretazione appiattisce un po' il personaggio.
Tra tutti quello più convincente, forte, segnato da dolore e fatica, indurito dalla prigionia, ma in realtà capace di trovare in sè ancora una traccia di umanità. Una bella interpretazione per un attore sempre all'altezza.
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