Regia di Philippe Grandrieux vedi scheda film
Se i graffiti incisi nei luoghi dell’antropologia tornassero a vita, proiettando immagini residuali, incise da tempo immemore, su uno schermo, nulla più che ombre opache racconterebbero parziali grumi di vite ancestrali. Mani carezzerebbero mani, mani scorrerebbero su volti, corpi si unirebbero a corpi; la parola, scarnificata all’osso, sarebbe brusio, la natura circostante l’habitat ignoto esploderebbe in suoni agghiaccianti di tellurica potenza.
Mani stringono mani, scivolano sui volti, sostando sulle pieghe del tempo, mani uscite dal buio come lacerti fantasma di un’emotività che tarda a palesarsi fuori dalle concrezioni del tempo.
Volti cui non compete la parola larga dilagante tra gli uomini in ere successive, fino alla caotica iperfunzionalità del linguaggio nell’ora del caos che ci governa dopo l’articolazione del verbo che si fece carne e avvolse il mondo nella bugia.
Sussurri, bisbigli, rantoli, grugniti denotano il significante nell’assenza provvidenziale dei marchingegni della psicologia: i suoni perforano l’aria algida di un mondo che, per successive stazioni, riconosceremo essere il nostro.
Ora serrata retinae, dal buio emergono mani che carezzano mani, mani che insaponano mani. Le mani raccontano una storia che a dirla è banale se Philippe Grandrieux la esplicitasse nel segno comune della visione ordinata, coattiva della semiotica del linguaggio filmico da catena di montaggio comunicativo.
Un lac sta alla visione come ‘i soffi’ al Bafometto di Pierre Klossowki: lascia che siano lo stormire delle foglie degli alberi, le montagne scosse dal fondo della geologia, i venti tutti della rosa a notificare ciò che l’occhio dello spettatore non può scorgere, se non dopo un sofferto esercizio di miopia.
Poi si potrà, in sede critica, aprire l’oggetto misterioso Le Lac, annetterlo impudentemente alla video-art, farlo gemello di Nam June Paik e Godfrey Reggio, premettendo che il regista viene da quel parterre; si potranno citare Jean Epstein e Stan Brackhage, potrei io stesso alludere al Vento di Sjöström; elencare le possibili letture psicoanalitiche; trovare il grimaldello ‘film sperimentale’, buono ad aprire ogni cassaforte visuale.
Si dirà, infine, che Grandrieux complica la storia banale di una ‘famiglia d’amore’ chiusa in nowhere/erewhon: la madre, fratello e sorella legati da un legame (semi-incestuoso? – a chi importa?), l’arrivo di uno ‘straniero’, la fuga della ragazza che si innamora di questo, l’arrivo del padre assente.
Una volta penetrata la trama (il pretesto), si dirà che c’entra Pasolini (Grandrieux ama il poeta, il carnet del regista è pieno di molti amori), che siamo di fronte a un film irto di testi e sottotesti, che ogni interpretazione è possibile, si faranno esegesi universitarie.
Poi si cercherà di redigere quanto tasso di visibilità sia possibile intravvedere nell’incessante alternarsi di tecniche occultanti, abrasione della pellicola, out focus, camera a mano, primi piani in corpo a corpo, prevalenza ossessiva del sonoro.
Infine: mani accarezzano mani, mani scivolano sui corpi.
Un Lac, nuova (o ultima) frontiera della visione, si nega alla visione stessa.
Sfocato è il mondo, miope è chi inforca gli occhiali per vedere.
“… fragmented bodies, legs, the extremely flat earth, the sunlight at its zenith, the brutality of the shots. All of that struck me. I was motivated. My cinephilia has constructed itself in a fragmentary way, but it’s not like there is cinema on one side, and literature and philosophy on the other. All of it is part of the same question, the same attentiveness, the same enterprise.” (Philippe Grandrieux)
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