Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film
Ciò che meritoriamente distingue L’esquive dall’ingiustamente celebrato Cous Cous è, anzitutto, l’assenza di quegli ammiccamenti festivalieri dati dal folclore etnico e dal favoleggiamento sull’integrazione, e da quei coloriti stereotipi serviti come elementi di identità culturale. Ciononostante, anche in quest’opera, la diligenza registica del dialogo sovrabbondante e dell’improvvisazione sotto forma di brainstorming a soggetto, soffoca la spontaneità sotto un massiccio ed innaturale bombardamento di ripetizioni e varianti. La concitazione genera, di solito, approssimazione, reticenza, discontinuità e indecisione, mentre qui, invece, si tramuta in una incredibile energia intellettuale, che esplode a raffica nei battibecchi per realizzare, a suon di tesi e antitesi, tentativi e ripensamenti, sinonimi e contrari, un’esauriente e perfetta analisi delle questioni in ballo (il valore, pecuniario ed estetico, del costume di Lydia, oppure la natura del suo rapporto affettivo con Krimo). Quest’accanimento linguistico e semantico potrebbe valere come psicanalitico, se solo seguisse la strada della libera associazione, anziché rimanere inchiodato all’idea fissa del momento: ne risulta, così, una rappresentazione, non si sa quanto voluta, di un attrito insuperabile, come quello che si produce rimescolando un calderone pieno di grumi. Forse è questa l’immagine che Abdel Kechiche ci vuole consegnare del melting pot della banlieue, dove le diversità si incontrano e si incastrano senza mai riuscire a fondersi. La mancanza di interscambiabilità tra giovani bianchi e di colore, tra nativi ed immigrati, dà luogo ad un mosaico privo di armonia e dinamismo, un quadro suddiviso in macchie di colore contrastanti e nettamente circoscritte. Il disagio sociale della periferia accomuna i suoi abitanti, ma non li avvicina più di tanto: le differenze culturali permangono, rendendo instabili e problematiche le coppie “miste”, sia nella vita reale, sia nella finzione teatrale. La storia dello spettacolo messo in scena presso la scuola di quartiere sembra dimostrare che ogni tentativo di riscatto tramite l’arte, o le esperienze educative condivise, è un volo in cui le ali si agitano, ma i piedi rimangono fissi al suolo. Intanto la testa è protesa al cielo, verso un’altitudine ideale, che il corpo non potrà, però, mai raggiungere: troppo pesante è, infatti, la zavorra delle abitudini consolidate, delle convinzioni radicate nella vita familiare, che creano barriere tanto invisibili quanto insormontabili. Nessuno, in questo film, parla esplicitamente di pregiudizi culturali e, d’altronde, l’argomento è stato messo al bando dalla moda, che l’ha trasformato in un vero e proprio tabù della coscienza. Tuttavia esso persiste, subdolamente, come categoria mentale, che impone, al personaggio di Rosetta, un Arlecchino della sua stessa etnia, e impedisce ad un ragazzo nordafricano di legarsi sentimentalmente ad una ragazza ispanica. Anche l’amore, come ci ricorda l’insegnante di letteratura, rimane prigioniero degli schemi inveterati che da sempre ingabbiano e frammentano la nostra società, col pretesto di organizzarla: una suddivisione rigida, al contrario, preclude ogni possibilità di ricombinare gli ingredienti in nuove ricette, per scoprire gusti inediti e potenzialità finora sconosciute, ed è questo, senza dubbio, il vero freno ad ogni forma di progresso.
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