Regia di Ermanno Olmi vedi scheda film
“Infuriava una grande tempesta che solo un grande poeta (come Olmi) può descrivere”; “Il perdono è più forte della legge”: questi l’incipit, un verso preso in prestito da Omero, e la chiusa, come una specie di corona musicale, di Cantando dietro il paraventi, l’ultimo capolavoro del regista settantenne bergamasco, Ermanno Olmi.
E’ il film che segue il bellissimo Il mestiere delle armi (Festival di Cannes 2001, vincitore di 9 David di Donatello, Globo d’oro per il miglior film 2000/2001), una sorta di ‘olio su tela’, ambientato nella terra di mezzo e al chiaro di luna, che riflette i bagliori di una luce precaria.
Un giovane, che intendeva recarsi ad un convegno di cosmologia, capita per sbaglio in un bordello, mascherato da teatro. Tra donne, mercenarie del sesso, si adagia su un letto, e tra un elisir che possa fargli “mettere le ali allo spirito”, assiste ad una rappresentazione, il cui racconto è affidato alla seducente voce di un capitano portoghese (un eccezionale e insolito Bud Spencer). Protagonista: l’acqua, quella dei mari della Cina (in realtà il film è girato in Montenegro).
Il titolo “è ispirato alla frase di un poeta cinese – ha affermato il regista - il quale ha preso spunto dalla storia vera della vedova Ching. La frase è questa: ‘i fiumi e i mari diventarono strade sicure e liete, i contadini vendettero le loro spade e comprarono buoi per arare i campi, mentre le voci delle donne rallegravano il giorno cantando dietro i paraventi”.
Ching, una donna “astuta come una volpe e sensuale come una lepre”, che ha perduto il suo giovane amante pirata, ucciso a tradimento a causa delle sue continue incursioni in villaggi controllati dal governo, riceve l’investitura come piratessa. Sconvolta ed oltraggiata, Ching diverrà il pericolo numero uno per l'Impero, del quale avrà anche il coraggio di attaccarne le navi commerciali che navigano sotto la sua protezione. L'impero subisce una serie di scacchi, finché non si decide di mandare contro la donna-pirata un così gran numero di navi da guerra “che l'orizzonte non bastava a contenerle tutte”.
Cantando dietro i paraventi è il teatro che mima il cinema, la letteratura classica che si fa favola. Un cluster che si avvale della forza incisiva di una scrittura, il cui stile appartiene solo a chi con la penna sa dipingere e scolpire le battaglie, le “diavolerie della modernità” (le macchine da guerra), le armi (anche qui i primi piani dei bocchettoni dei cannoni, come ne Il mestiere delle armi), i pennacchi di fumo, le navi pirata, proprio come i fiamminghi Jan van Eyck, Michael Pacher, Albrecht Durer e tanti altri, senza però mai mostrare il sangue e il tormento, merito anche della bella fotografia di Olmi figlio (Fabio). Tale aspetto è accentuato dalla partitura musicale della colonna sonora: ora le canzoni popolari cinesi, poi un ammaliante Berlioz e Ravel, ma anche la forza irrompente di un portento come Stravinsky. Al fragore delle armi fanno da contrappunto gli interminabili silenzi, in cui, il mondo fiabesco di Olmi, lentamente prende forma simbolica: dal racconto narrato si passa, senza alcun accorgimento, a quello del racconto agito in esterni, in cui tutto è porto con discrezione, con i dialoghi quasi sussurrati nell’orecchio dello spettatore. Viene naturale pensare che, dietro tali cineserie del regista, ci sono le favole della tradizione lombardo-veneta, ma anche la poesia decadente e verista, visibilmente accostabili all’immagine dell’Imperatore sofferente, sotto il grande albero.
Cantando dietro i paraventi, allora, è la metafora, il tentativo di conciliare l’interno (ciò che si cela dietro i paraventi) lo spirito, con l’esterno, il corpo. La terra e il mare, la luce e il buio. Il naufragio. Quest’ultimo diventa il denominatore comune per tutti i personaggi del film. Un naufragio, che non è necessariamente sinonimo di morte. Anzi è inteso come il tentativo, che appartiene all’umanità tutta, da Omero agli ultimi dispersi nel mare di Lampedusa, nel tentativo di approdare su sponde a volte irraggiungibili. Si è naufraghi a vita. E’ questo il cammino dell’umanità.
Il finale del film di Olmi dimostra tutto ciò: all’insostenibile leggerezza degli aquiloni si contrappone la carica e il peso delle bombe che cadono sulle navi dei pirati ormai accerchiati. Mentre gli aquiloni, se messi l’uno accanto all’altro, raccontano una storia, le bombe non dicono, agiscono senza parola. La vita e la morte. La guerra e la pace, al suono delle voci delle donne, che “rallegravano il giorno, cantando dietro i paraventi”.
Giancarlo Visitilli
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