Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
Questa è l’opera che segna con nettissima evidenza il passaggio a una più marcata maturità del regista e quindi fondamentale per scoprire le radici di alcune delle tematiche che troveranno poi un più compiuto sviluppo esplicativo negli straordinari capolavori che verranno dopo anticipandone in nuce alcuni posizionamenti di pensiero e di stile.
Non l’abbiamo visto (al momento della programmazione in sala) nella giusta cronologia temporale, questo film che è del 1952, ma che in Italia arrivò – sull’onda della notorietà che nel frattempo Bergman si era giustamente conquistata sul campo – solo nel 1961, quando i distributori, fiutando l’affare, distribuirono un pò alla rinfusa tutto quanto il grande regista aveva realizzato “prima”, e ciò creò indubbiamente parecchi “problemi in più” per una “coerente” collocazione dell’opera nel percorso formativo del suo autore, con qualche inevitabile (e comprensibile) disguido anche valutativo che fortunatamente il tempo ha poi fugato.
In Italia infatti non ebbe sul momento, incondizionati “riconoscimenti” in positivo dalla nostra critica (qualcuno tentò persino di banalizzarne il senso semplicizzando lapidariamente il tutto con frasi del tipo: “Harry e Monica erano soltanto un bravo ragazzo e una bambola perversa” - e fra loro, alcuni di coloro che si proclamavano fra i primi (evidentemente improvvisati) “storici” dell’opera del regista, che dimostravano invece con questo pressappochismo, di averci capito poco o niente, e di essersi fermati solo ad osservare la superficie dell’apparenza delle cose.
La vera scoperta di questo precoce piccolo capolavoro embrionale, era comunque avvenuta qualche anno prima in Francia (per l’esattezza nel 1958, in occasione di una retrospettiva, certamente più organica e consequenziale, organizzata alla Cinémathèque di Parigi). Non è dunque assolutamente casuale che abbia acquisito maggior fama proprio in quella terra, visto che si tratta di una delle opere più amate dalla Nouvelle Vague (“omaggiata” persino da Truffaut nei Quattrocento colpi, nella famosa scena in cui Antoine Doinel - al secolo Jean-Pierre Leaud - ruba la “celeberrima” foto della Andersson con le spalle nude, è pure quella che ha fatto dichiarare a Jean-Luc Godard, forse con qualche iperbole di troppo, che “è il film più originale del più originale fra tutti i cineasti”). Ci si individuano in effetti delle scelte “stilistiche” che definiscono quasi delle “analogie” (parallelismi?) che anticipano alcune innovazioni formali peculiarie di quella corrente e che giustificano ampiamente questa “preferenza”, prima fra tutte, lo straordinario, quasi insostenibile lungo piano sequenza in cui Monica (la Andersson appunto) fissa spudoratamente, “confessandosi”, la macchina da presa e con essa, indirettamente, lo spettatore (ed è proprio a tale scena, alla sua intensità disturbante che si riferisce Godard quando afferma che si tratta “della più triste di tutte le storie raccontate dal cinema”).
Successivo a Un’estate d’amore e a Donne in attesa, ma anteriore a Lezione d’amore (che qualcuno indica con la stesa datazione, ma che è stato girato dopo) e allo straordinario Una vampata d’amore (si noti la scarsa “fantasia” dei distributori italiani nel tradurne i titoli - con “assonanze” abbastanza evidenti non sempre presenti in originale - visto che più o meno tutte queste opere sono state editate in un lasso di tempo abbastanza ristretto e si avvertiva evidentemente la necessità e il “desiderio” di collegarle in qualche modo fra loro per “attirare” più gente in sala, e si sa che la parola amore rappresenta sempre un ottimo vaticinio al riguardo) Sommaren med Monika (letteralmente Un’estate con Monica, ma da noi diventato per la consueta “voglia” di essere più “pruriginosamente” ammiccanti, Monica e il desiderio) si presenta, specie se rivisto oggi, davvero come una delle creazioni-chiave del regista svedese: importante non solo per approfondire la conoscenza evolutiva della sua opera, ma anche per scoprire la natura (o meglio le radici), di alcune delle tematiche che hanno trovato un successivo sviluppo esplicativo con la piena maturità anche stilistica che conosciamo, a partire dal “Settimo sigillo” in poi.
E’ certamente l’opera (e ormai credo che sia la stragrande maggioranza ad essere orientata in questo senso) che, pur richiamandosi per toni e ambienti ai suoi precedenti lavori, segna con nettissima evidenza il passaggio da una concezione più interna del tema narrativo, che vorrei definire di natura quasi “autobiografica”, a una visione più esternamente problematica, non strettamente “personale” che non esclude il proprio vissuto, comprese le reticenze e i dubbi, ma che è finalmente universalizzabile, una straordinaria elaborazione formativa di assoluta coerenza, che si amplificherà con sempre maggior vigore fino ad arrivare alla piena maturazione non solo espressiva, ma anche contenutistica de Il posto delle fragole (e successive tappe fondamentali del suo percorso) del quale mi sembra anticipi in nuce, alcuni posizionamenti psicologico-morali proprio in funzione degli elementi innovativi che apporta alla definizione del personaggio femminile: Monica infatti ha lasciato alle sue spalle Mari (Un’estate d’amore), la ballerina che per combattere la solitudine accetta il compromesso sentimentale, e preannuncia già, non solo la disillusa consapevolezza di Anne di Una vampata d’amore, ma anche la sconcertante figura della Nix di Lezioni d’amore, oltre ad avere tratti riconducibili persino all’inquieta Doris di Sogni di donna e alla gioiosa Petra di Sorrisi di una notte d’estate (per altro tutte straordinarie creazioni al femminile realizzate con la collaborazione proprio della bravissima Andersson, una delle Muse privilegiate del regista con la quale ha avuto un lungo e proficuo sodalizio non solo artistico). E’ insomma una figura di donna insolita, con variazioni “emancipative” molto importanti, per esempio per quanto riguarda il compimento dell’atto sessuale che, da meccanico e “inevitabile” diventa, per lei, via via sempre più “naturale e cosciente” quasi una espressione di vita. Ed è appunto in tale contesto di variazioni e di umori, che prende corpo la rappresentazione tutta fisica di questo inquietante personaggio, che ha le sue radici in un insolito ambiente suburbano: un sobborgo industriale di Stoccolma sporco e squallido, dominato da un ponte d’acciaio che prelude (forse) ad altri universi, e dove la povertà assoluta imperante può essere solo placata (alimentata?) dall’abbrutimento nell’alcool, e si esteriorizza poi inevitabilmente in relazioni sgarbate e violente. Monica sembra essere allora la degna figlia di tali “miserie”: a sua volta volgare e impudica (ben al di là delle stesse ampie libertà già in quegli anni comuni agli svedesi), sguaiata e famelica (di quell’ingordigia tipica di chi è cresciuto negli stenti), è animalescamente “selvaggia”, con scatti anarcoidi di sotterranea ribellione contro coloro che “hanno tutto”. Ama però anche lei le belle cose e il lusso, ne è fortemente attratta e potrebbe essere disponibile a tutto pur di arrivarci, ma mantiene però un fondo che si potrebbe definire di sentimentale “innocenza” che emerge soprattutto nei “sogni romantici” di quando si lascia andare rapita dalla finzione cinematografica (la sequenza in cui assiste alla proiezione del film “Amore infinito”) che le restituiscono dei tratti più umanamente “praticabili” che lentamente le scelte finali disgregano. Rientra insomma a pieno titolo in quella categoria di donne che il regista amava definire “delle bestie selvagge e dei rettili pericolosi” (che poi era quella che lui prediligeva e dalla quale era attratto con maggiore trasporto e interesse).
A suo modo, anche quella raccontata dal film, è una storia di “evasione” che non ha un “lieto fine” (Monica è una commessa sedicenne che scappa appunto dalla oppressiva Stoccolma per andare a vivere su un isolotto con un suo coetaneo con il quale divide una momentanea passione amorosa. Passata l’estate della fuga, i due si sposeranno e avranno una figlia ma poi, quando l’amore avrà concluso davvero il suo giro, le cose non potranno che prendere una piega diversa e molto più amara.)
Detta così, la stessa parentesi della lunga vacanza estiva, (nucleo centrale della vicenda) potrebbe facilmente rientrare in quel “pensiero” ampiamente sfruttato e non solo dal cinema, che si identifica col “desiderio di partire (scappare) per un luogo lontano” (andarsene per tentare di sfuggire al proprio destino). Per Monica invece la cosa è diametralmente opposta, e questo è uno dei principali elementi di novità: il viaggio, la “fuga”, costituisce per lei non tanto un diversivo alla vita quotidiana (la necessità di “respirare” un’aria migliore), ma rappresenta invece un modo per “esprimersi” (l’unico a portata di mano) e dare una forma concreta e reale alla sua voglia di “possesso” (possedere qualcosa o qualcuno) e forse persino al suo desiderio di “dilaniare” (per essere a sua volta “dilaniata”).
Nei confronti del timido e inetto Harry, il ragazzo che l’ama, essa si comporta in effetti – e la citazione è d’obbligo - nella stessa maniera in cui opera il Giovanni del kierkegardiano Diario del seduttore nei confronti di Cordelia (ovviamente invertendo i ruoli) e il finale del film, fra le note del valzer di Olsson e le soluzioni formali adottate, sembra in qualche modo voler alludere, richiamandoli alla memoria, ad alcuni versi di Goethe: (“Va’, disprezza la fedeltà; il pentimento viene dopo), tanto per rimanere sul fronte citazionistico.Misoginia dunque (si pensi appunto a come viene descritta la ragazza, all’indulgere quasi impietoso sui suoi gesti e sul suo atteggiamento) ma anche matriarcato (i personaggi della zia di Harry, della madre di Monica e persino della moglie del l’uomo che scopre il furto dell’arrosto): due temi entrambi ben presenti nel film, che sono del resto proprio i due termini estremi di una stessa concezione, quelli della donna, matrice e divoratrice al tempo stesso (la “femmina che dà la vita - e “conosce” per questo un dolore che all’uomo è precluso - ma che poi risucchia e distrugge – con la potenza tranciante del sesso – la vita stessa del maschio). A Harry, ragazzo scialbo e maldestro, condannato a un’esistenza banale, Monica – con tutto il violento vigore che è suo per nascita – saprà “regalare” per un tratto, la forza della ribellione nella serena parentesi estiva del vagabondaggio (termine ciclicamente ricorrente) nell’arcipelago, ma esigerà – proprio per la sua natura animalesca e felina più volte sottolineata – una ricompensa che poi è quella del sesso (con sollecitazioni abilmente provocate e rinfocolate), comunque inteso come rapporto avido ed esclusivo più che del “darsi in amore” (ma che sarà sufficiente a pagare il pedaggio solo finché la novità risulterà gradevole e la sensazione stimolante). In seguito però, quando la soddisfazione carnale in lui si assopisce , è nel desiderio di distruzione, di annientamento che il sesso ritornerà ad assumere nella donna il senso si un equivalente edonistico, quasi una ragione di vita.
Non è dunque soltanto nella squallida e sacrificata esistenza che la convivenza con il ragazzo le prospetta – o non è solo per quello – che Monica esplicita le ragioni del rifiuto e trova la spinta per il suo avviarsi al vizio e alla prostituzione: è ancora una volta proprio quella forza interiore, implacabile, che è la sua caratteristica “primordiale” che la spinge inesorabilmente in quella direzione che la stimola e la invita a causargli il disagio, godere del suo male, fino a diventarne indissolubile parte .
Il film non è dunque come potrebbe sembrare a un primo sguardo distratto, l’analisi (racconto) di una inevitabile “caduta”, né si pone l’obiettivo prioritario della denuncia sociale, o di voler essere un’indagine approfondita sulle incertezze e gli errori di cui i giovani sono vittime “alle soglie della vita” (tanto per parafrasare il titolo di un’altra opera di Bergman). E’ semmai l’enunciazione di una tematica complessamente articolata (e qui accennata in sintesi): quella del “disagio esistenziale” tutto interno alle coscienze che prenderà sempre più forma compiuta nelle opere successive.
La descrizione del sobborgo popolare, le “fosche” tinte iniziali, la disumanità di un quotidiano vivere (lavorare, divertirsi, evadere) sono allora solo un semplice contorno, uno sfondo appositamente scelto per poter conferire maggiore autenticità credibile alle psicologie e alla traccia narrativa, per consentire l’intrusione di effetti crudeli e di sottolineature ambigue (comprese le scene, altrimenti gratuite, del pretendente che danneggia il motoscafo, o quella della spedizione ladresca nella villa in campagna). Per questo, risulta adesso meno incisivamente pregnante (e anche un po’ datata) tutta la parte girata a Stoccolma, così “deprimentemente” intrisa di nero realismo, rispetto a quella centrale nell’arcipelago che si conferma tuttora straordinariamente vitale. Colpisce ancora oggi poi, al di là della straordinaria bravura dell’attrice, l’insolente sensualità della Andersson allora ventenne (rimane insomma inalterata l’eroticità “innocentemente esibita” di quelle spalle nude che faranno compiere al ragazzo di Truffaut il “furto” della foto che le ritrae).
L’impegno di Bergman è come al solito superbo, ancora una volta impegnato spasmodicamente ad esporre tutta l’interiorità travagliata dei “suoi” personaggi. Si avvertono semmai qua e là alcune “acerbità” che si estrinsecano in piccoli scompensi narrativi, o in qualche minimale smagliatura di tenuta registica, come il troppo repentino - e scarsamente “documentato” - passaggio fra la vacanza e la vita coniugale, o (come già detto) la discontinuità “stilistica” fra le due parti, che non riesce a dare all’opera quell’amalgama perfetto, che avrebbe forse richiesto e meritato.
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