Regia di Carlo Verdone vedi scheda film
Compagni di sola. E di solitudine. Alla boa della maggiore età – “Ma che colpa abbiamo noi” è, infatti, il diciottesimo film – il cinema di (e con) Carlo Verdone torna sui suoi passi, riposizionandosi in zona corale, con otto personaggi in cerca d’autore e, soprattutto, d’amore. Feriti dalla vita, oppressi da genitori despoti, bulimici e anoressici, ipervanitosi e incapaci di crescere e di accettarsi, quattro uomini e quattro donne ben rappresentano lo spaccato malincomico dell’Italia del Nuovo Millennio, in cui “l’ipocondriaco” ex gallo cedrone sguazza che è un piacere, tra psico quasi psycho & analisi finali e di gruppo, alla ricerca della felicità perduta. Zampate da vecchia commedia all’italiana - in molte scene si sentono le unghie del veterano Piero De Bernardi, sceneggiatore (di) classe 1926 - e omaggi – chissà quanto inconsci o voluti – al Moretti di “Ecce Bombo” (l’urlo sardonicamente disperato di uno degli attori feticcio del primo Nanni, Fabio Traversa, durante il funerale dell’anziana dottoressa Lojacono) e “Sogni d’oro” (la presenza, nei panni del maggiordomo, di Remo Remotti, indimenticato dottor Freud nell’opera terza del regista di “La stanza del figlio”), allontanano i facili ricordi della fatica verdoniana apparentemente più immediata e speculare, “Compagni di scuola”, a cui “Ma che colpa abbiamo noi” si apparenta – certo – ma più per il commovente affetto che Carlo (di)mostra nei confronti dei nuovi amicali caratteri che per la struttura del film. Splendido cinquantenne e autore dal fermo e solidissimo mestiere, Verdone conferma occhi attenti e sguardi non banali (si pensi, per esempio, all’assai psicoanalitica scena d’apertura: quel dolly che entra nell’antica casa, mentre le voci si rincorrono fuori campo), e una sapientissima maestria nella direzione degli attori, di cui piace segnalare la raggiunta maturità della finora solo bella Anita Caprioli, la riuscita recidività di Margherita Buy (già nevrotica con Verdone in “Maledetto il giorno che t’ho incontrato”) e il coraggioso spirito di adattamento della grimaldiana Lucia Sardo. Se c’è un difetto è nella parte centrale, qua è là prolissa, dove par di capire quanto l’autorattore romano non abbia avuto il cuore di tagliare. Per amore dei “suoi”. E per non dover dire, mi dispiace.
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