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C'era una volta in Bhutan

Regia di Pawo Choyning Dorji vedi scheda film

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La recensione su C'era una volta in Bhutan

di EightAndHalf
6 stelle

In Bhutan nel 2007 si tennero le prime elezioni democratiche del paese per volere del Re abdicante. Il paese è impreparato e deve essere allenato a votare, nonché a partecipare alla pratica del dibattito politico; dei commissari addetti indicono in un villaggio fra i monti una simulazione d’elezione, con indicazioni pratiche su come si vota. Le fazioni politiche si limitano a tre partiti: “libertà e progresso”, “sviluppo industriale” e “conservazione”.

Nel frattempo, un sacerdote buddhista decide per motivi oscuri di volere un fucile, e quindi ordina a un monaco di procurarglielo entro il giorno della Luna Piena per un rituale “che risolverà le cose”. Il fucile che il monaco troverà nella casa di un umile anziano però sarà nelle brame di un commerciante illegale di armi americano, che guidato da un locale cercherà di recuperare l’arma - reperto prezioso della Guerra Civile Americana - a qualsiasi costo.

Il regista di Lunana, tenero film candidato all’Oscar come miglior film straniero nel 2022, alza l’asticella con un film più politico ed esplicito sul grado di isolamento di alcune realtà bhutanesi fuori dalle mappe e dai più grandi centri metropolitani, un mondo umile che poco ha risentito storicamente della monarchia - o almeno è quello che ci fa credere il suo regista - e che non capisce la natura posticcia dell’installazione della democrazia nel loro paese. È quello che perplime maggiormente nel film, questa sensazione di incoraggiare l’isolamento, la chiusura al mondo e al nuovo - fatta eccezione per una scritta finale che parla della necessità di un equilibrio - e che vede nell’apertura all’Occidente solo l’ingenuità di qualcuno. Perché per il resto il film è una brillante commedia di intrecci e equivoci, che a fatica riesce a fuoriuscire dai limiti di un approccio cartolinesco. Un film insomma interessante ancor più per quello che dice involontariamente che non per quello che sostiene volontariamente sulla paura del colonialismo, poiché nella sua incapacità di definire chiaramente questo equilibrio fa materializzare, fra una risata e una cartolina, la natura di quella paura. Idealmente pronto a sfondare in possibili potenziali candidature all’Oscar.

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