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C'era una volta in Bhutan

Regia di Pawo Choyning Dorji vedi scheda film

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La recensione su C'era una volta in Bhutan

di obyone
6 stelle

 

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C'era una volta in Bhutan (2023): scena

 

Officine Ubu l’ha ribattezzato “C’era una volta in Bhutan” forse perché i vertici della casa di distribuzione hanno visto nel fucile un omaggio al nostro Sergio Leone o forse perché il “working title”, “Once upon a time in Bhutan” era, a loro modo di vedere, più attraente del titolo internazionale in inglese scelto più tardi. Ma il secondo film di Pawo Choyning Dorji, è doveroso dirlo a chi associa il titolo al western e alle sparatorie, non ha niente a che vedere con tutto ciò. Nel suo complesso l’inglese “The Monk and the Gun” è decisamente più calzante in quanto il regista, tra i tanti personaggi che segue, pedina un giovane monaco ed il vecchio fucile, apparentemente, di gran valore che serve al suo maestro. Altri personaggi fanno capolino raccontando, indirettamente, la transizione del Bhutan da regno assoluto di Jigme Singye Wangchuck a monarchia parlamentare sotto la guida del giovane sovrano Jigme Khesar Namgyel Wangchuck. Il film, ambientato a ridosso della prima elezione assoluta nello stato del Bhutan, quella che deve eleggere il nuovo ramo del parlamento, racconta dell’esperimento sociale svolto nel piccolo villaggio di Ura scelto dal governo centrale per organizzare un’elezione di prova. Sul posto viene inviata una funzionaria per sovraintendere alle operazioni di voto e scrutinio e per convincere i numerosi scettici. La cittadinanza, infatti, diffida delle elezioni quanto della democrazia mentre una famiglia, con le divisioni interne provocate dalla competizione politica, diventa, inconsapevolmente, specchio del cambiamento epocale da cui il regista inizia la sua riflessione sulla società bhutanese e sui cambiamenti imposti gradualmente dalla monarchia per porre fine all’isolamento culturale e politico del paese. In tutto ciò arriva dalla capitale una giovane guida che accompagna un industriale americano alla ricerca del vecchio fucile intorno a cui tutto ruota.

 

scena

C'era una volta in Bhutan (2023): scena

 

“C’era una volta in Bhutan” è delizioso ma didascalico. Offre suggestivi paesaggi incastonati tra le montagne e la summa del pensiero buddista. Il ritratto paesaggistico, che a più riprese viene utilizzato come stacco nel montaggio di Hsiao-yun Ku, determina l’accentuato effetto cartolina percepito durante la visione. Dal punto di vista contenutistico l’impressione di un’operazione promozionale, volta a comunicare la sacralità del pensiero buddista, è molto forte. La saggezza del lama e l’attaccamento alla religione, vissuta con rettitudine dal proprietario della vecchia arma, raccontano di un mondo tradizione in cui il denaro ha un peso relativo ed il rispetto del sacro è imprescindibile. Il modus vivendi nel pacifico villaggio ha niente da spartire con la frivolezza della capitale e con la dissolutezza dei costumi americani rappresentati dai mitragliatori AK47 oggetto dello scambio. Gli unici a percepire il bisogno di danaro sono la giovane guida proveniente dalla capitale e la famiglia che sembra aver abbandonato i precetti della pacifica convivenza per rincorrere l’effimero valore dei vantaggi economici che le elezioni possono garantire. Per tutti gli altri, escluso l’ospite straniero, che un po’ furbescamente e un po’ scorrettamente viene visto come pietra di paragone tra Oriente e Occidente, l’esistenza si misura sulla compassione, la verità e la saggezza. Del resto il Bhutan, e Dorji sembra lì per ricordarcelo, è il paese in cui il sovrano Jigme Singye Wangchuck, per primo, introdusse il concetto di felicità interna lorda (F.I.L.) che voleva sostituire quello di Prodotto Interno Lordo. La felicità viene misurata su indicatori di benessere diversi dalla ricchezza materiale come la bellezza della natura, la lentezza, il rispetto dell’ecosistema, l’istruzione, che, forse, non seducono quanto una bottiglia di Coca-Cola (acqua nera) o un poster di “007” ma aiutano ad incrementare il benessere in modo sostenibile.

Il Bhutan ha comunque i suoi scheletri nell’armadio che gettano ombre sull’idilliaco ritratto filmato da Pawo Choyning Dorji. Il principale è senza dubbio rappresentato dalla questione dei “Lotshampa”, contadini nepalesi ed induisti scacciati dalle pianure meridionali del paese e finiti per ingrassare le fila degli esiliati e dei rifugiati in Nepal. Con loro non sono state usate compassione e umanità, segno che non non tutto ciò che luccica è oro..  e arancione. 

 

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C'era una volta in Bhutan (2023): scena

 

La scrittura del regista e sceneggiatore bhutanese è, comunque, piacevole ed ironica. Conduce i fiumi della prosa nel bacino tranquillo di una buca in cui vengono sotterrate, in un rito propiziatorio, le passioni più violente. Instilla, infine, il dubbio operando nei cuori distratti il benefico riallineamento spirituale da cui ripartire. Qualche ingenuità, un uso dei campi lunghi non sempre equilibrato e l’istinto di ricorrere alla semplificazione ne sgretolano, in parte, le basi pur mantenendosi il risultato più che sufficiente. Addirittura ottimo laddove la descrizione del Bhutan del 2006 ci permette di conoscere uno dei paesi più piccoli e chiusi dell’Asia, fino ad allora privo di televisione di stato, internet e altre piccole e moderne amenità. 

 

Cinema Teatro Santo Spirito - Ferrara

 

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C'era una volta in Bhutan (2023): scena

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