1999. Dalla prigione tunisina placcata in oro, assistiamo ai tardi malumori, alle confessioni finali, all'ultimo ruggito-rantolo di orgoglio dell'ultimo (unico?) statista italiano del '900.
E dalla placcatura emerge, inarrestabile, il ferro.
Iniziamo questa breve recensione liquidando subito il re Carnevale:
Pierfrancesco Favino glorioso, metamorfico, ipnotico.
Non diremo altro, per evitare derive giulebbose.
Il film è lungo (oltre le 2h), ha dei visibili momenti di stanca, è verboso. Il difetto più evidente è che può essere poco appetibile per un pubblico giovanissimo (quello che, invece, deve sapere!).
Tuttavia è girato da un buon artigiano, fra i suoi attori pure GMVolonté, che riesce a umanizzare un fuggitivo in esilio, senza cadere nell'agiografia e nella critica politica. I nomi romanzati aiutano, brechtianamente, a mantenere la giusta distanza.
E il finale - carnascialesco e psicanalitico - è un sapiente compromesso fra Petri e Bellocchio.
Perfetta la fotografia di Luan Amelio Ujkaj.
Speriamo solo che questo film aiuti gli sparuti Digitarians di molto buona volontà (gen. Z, per i sociologi), a capire cosa è successo nel decennio che li ha visti nascere. Perché sotto il biopic fuoriesce, inarrestabile, il film generazionale; e questa volta non sono in giuoco i tanto criticati boomer ma quelli della cosiddetta Silent generation.
Che è stata tutto tranne che silent.
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