Certo cinema italiano non soltanto è vivo ma è riuscito anche a eliminare alcuni dei difetti che un tempo gli venivano non a torto imputati. Se lo scorso anno a incaricarsi del compito era stato Roberto Minervini con il suo "Che fare quando il mondo è in fiamme?", quest'anno toccava a Pietro Marcello prendere il testimone del nuovo corso, presentando un film, "Martin Eden", che denunciava fin dal titolo l'ambizione di aprirsi a un pubblico non solo italiano, per ragionare dell’umano attraverso una fonte, quella dell'omonimo romanzo di Jack London, ancora una volta - come il lungometraggio di Minervini - riferita all'immaginario americano. A differenza del collega, Marcello fa un'operazione di segno opposto, rinunciando alle forme del documentario per debuttare in quelle di finzione, ma soprattutto sposta la collocazione della storia dagli Stati Uniti all'Italia e, in particolare, nella Napoli del primo Novecento, facendo di luoghi e persone della metropoli partenopea una sorta di contro canto dell'avventura umana del protagonista, figlio del popolo costretto come tanti a sbarcare il lunario fino al giorno in cui l'incontro con una ragazza di famiglia benestante lo renderà consapevole dell'importanza del sapere, spingendolo a diventare uno scrittore.
Come in parte già anticipato, Marcello non è interessato alla ricostruzione filologica del romanzo in questione, né ha intenzione di mettere in scena un film di e in costume, così come di seguire anche nel montaggio e nelle scenografie le convenzione tipiche del genere. Se, infatti, i riferimenti letterari e cinematografici spingerebbero l'operazione verso una realizzazione di tipo classico, va da sé che Marcello per trascorsi e intendimenti fa di tutto per sviarne logiche ed espedienti.
Non dimentico della sua precedente cinematografica ma anzi traendone nuova ispirazione, Marcello compie sul piano della forma un connubio tra vecchio/documentario e nuovo/finzione in cui ciò che è stato partecipa al presente quando si tratta di far dialogare con la realtà i pensieri, le parole e le azioni di Martin. Tra i primi a farsi largo c’è "La bocca del lupo" ripreso nella metodologia con cui questo alternava il racconto orale dei due protagonisti ai filmati di repertorio che ricostruivano la storia sociale e demografica e le trasformazioni urbanistiche della città ospitante (Genova). Più che il fine Marcello ne adotta le procedure (per esempio la ricolorazione dei materiali d’archivio e il montaggio a distanza sull'esempio del "mentore" Artavazd Pelešjan) e la dimensione poetica, adattandole alle "temperature" della vicenda in maniera che i frammenti in questione siano allo stesso tempo testimonianza di una formulazione diversa della verità (diretta e non mediata) e, per contro, una pietra di paragone che invece di allontanare finisce per avvalorare la parte "apocrifa" del film, quella a cui Marcello riserva il compito di incarnare la bellezza del creato e l’armonia di cui parlava London e che i primi piani di Luca Marinelli e Jessica Cressy (e senza dimenticare l'ottima Denis Sardisco nel ruolo di Margherita) traducono in immagini come meglio non si potrebbe.
Se ciò non bastasse a fare di "Martin Eden" un gioiello fuori dal coro, ad aumentarne il "carico" ci pensa il gioco di specchi che fa del protagonista una sorta di doppio del suo autore. "Martin Eden" infatti condensa non solo, e come già detto, il cinema del nostro (il paesaggio che Martin vede dalla casa di Maria è lo stesso di "Bella e perduta") ma ne riassume l'individualismo (oltre che regista e sceneggiatore Marcello è stato - spesso - anche produttore e direttore della fotografia dei suoi film) e la scelta di vivere appartato rispetto al suo mondo di riferimento. Per non dire del'adesione alla libertà artistica di Martin, replicata nel disseminare il film di inserimenti anacronistici: per esempio, la comparsa di automobili degli anni Sessanta e Settanta seguite, poco dopo, da soldati vestiti alla maniera delle camicie nere, come pure - in apertura - il juke-box di canzoni di diverse epoche e stili chiuse da "Voglia 'e turnà" cantata da Giuliana De Sio. Fino al colpo di genio finale, rappresentato dalla trovata di incanalare la verve polemica e febbricitante dell’artista engagé creando, nella parte conclusiva, un cortocircuito tra il modo di recitare e anche di presentarsi di Marinelli alla figura pubblica e privata di Gian Maria Volontè, che del credo professato da Marinelli/Eden fece vita, oltre che arte. Giustamente inserito da Barbera nel concorso veneziano "Martin Eden", in attesa di verificare l'eventuale inserimento nel palmarès dei vincitori, si appresta a uscire nelle sale italiane con i migliori auspici. Come sempre al pubblico spetterà l'ultima parola.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)
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