Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film
Il cuore rivelatore è uno scrigno nerissimo e sanguinante in cui pulsa, letteralmente, il fuoco della vita. Ritornante ed eternamente (con)dannata: la morte è un sacrificio ineluttabile che abbatte le porte del presente e fa tornare (il) tutto al principio.
Lei, Madre e moglie e casa di un amore sconfinato oggetto di un amore perverso e mist(er)ico, scruta oltre le pareti e percepisce, “vede”.
Esiste (nel riflesso di un'entità carnosa cosmica che è anima – la propria –, e pena infernale).
Al di là (e aldiqua) di una cronaca in tempo reale sempre più irreale e angosciosa, di un maelstrom emozionale dai sintomi fisici (gli improvvisi, acuti dolori addominali) e dalle interruzioni psichiche, di una crescente, putrefacente sensazione di essere, al contempo, corpo estraneo e centro di ogni cosa: Mother – mother! – è musa ispiratrice ed emblema e frutto di una trasfigurazione lirica funerea e incendiaria.
In versi dal passo ora brioso ora sgradevole ora tedioso e ammorbante e infine spettacolarmente farneticante, in contenuti che non lesinano iniezioni caustiche e “sacrileghe” (venefico e rappreso l'inchiostro che s'imprime su carta che si fa beffe dei culti e dei loro adepti esaltati!), così come sanno farsi manifesto/racconto di sé e del parto/atto artistico (Lui – un JB divinamente mefistofelico –, il poeta/demiurgo/creatore, le sue crisi d'ispirazione e le incomprensibili scelte), in un'estetica pastosa e vivida che coagula paure ancestrali, squarci onirici infetti e infettanti, visioni voluttuose mesmerizzanti, temi portanti assillanti (la mdp in perenne, sfacciata adorazione di JL, sensualità e candore immortali): l'organismo filmico aronofskyiano è sangue che corrode strati e substrati della coscienza fino a svelarsi sostanza anomala plasmata negli abissi del delirio e dell'insolenza.
E sì, anche, osmoticamente, nell'autocompiacimento (da quando è un – il – male assoluto?!).
Prima parte che seduce e indispone, reclama attenzione e quasi respinge, costruita attorno a un teatro dell'assurdo dilatato e alla (de)costruzione dell'insinuazione allegorica oltre che della visita guidata nella casa-grembo (immersa nel nulla, eretta sopra/dentro un universo a parte: l'ego, probabilmente) e dei suoi abitanti. Originali e (non) invitati. Il gioco assume toni progressivamente contorti, mentre indizi e simboli sparsi ovunque come brandelli di materia cerebrale dopo un colpo mortale in testa conducono le danze (macabre e grottesche) e fungono da ardita genesi, da fecondo preludio.
Poi l'estasi e l'ebbrezza. L'eccesso.
L'accesso al senso (ai sensi) della casa-film è un bagno nello stagno dal fondo limaccioso dal quale fuoriescono strani esseri ricoperti d'un cieco, contagioso fanatismo, è un passaggio non richiesto alla mostra delle atrocità, è uno stupro dell'intelletto a un'invasione domestica pacifica che trascende in violenza sadica incontrollata, è lo smarrimento total(izzant)e che si fa consapevolezza da incubo, è il fato scritto che riscrive la medesima composizione folle di (dis)armonie grandguignolesche, note sataniche, contrappunti tragici, modulazioni ipnotiche, acuti alcolici, reminiscenze polanskiiane, fughe retoriche.
Una lunghissima sequenza allucinante dall'incredibile crescendo rossiniano, che osa e oltrepassa i limiti (del ridicolo, dell'accettabile, del canonico, del filmabile, oggi) e che nella formulazione/messinscena del delirio – impregnato degli umori densi e brucianti dell'orrore, del grottesco, della satira, del dramma, del simbolismo, della farsa – trova l'innesco infuocato per una sublimazione del corpo (materno) filmico che non può che figliare il senso ultimo dell'atto creativo, il concepimento di sé.
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