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Alfredo, o della dura vita del crooner
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Non mi piacciono i riferimenti personali, le storie che partono con l’io, l’io c’ero, l’io ho fatto. Ma, in questo caso, il breve racconto deve partire da ciò che rifuggo, dalla telefonata di mia madre che mi dice: “Hai sentito? È morto Alfredo. Poco alla volta ce ne andiamo tutti”. Alfredo? Chi è Alfredo? Poi mi ricordo che loro lo chiamavano così, gli amici d’infanzia di Campobasso, coloro con i quali Alfredo/Fred sognava e giocava, cui confessava i desideri più nascosti (una chitarra, una canzone, un night, un amore da vivere o da far nascere), quelli con i quali si spostava lungo il mare di Termoli a vedere rotonde prima che le rotonde diventassero modernariato musicale, a ballare e immaginare una vita lontana. Alfredo che accompagnò mia madre all’ospedale quando lei ebbe un attacco di appendicite acuta, Alfredo che, alla mamma che non vedeva di buon occhio la relazione con la donna che sarebbe diventata la compagna di una vita, diede una risposta (morbida, felpata, diremmo a posteriori confidenziale) che valeva il prezzo di un metaforico biglietto. Alfredo Bongusto era un figlio di Campobasso, il giovanotto della provincia nascosta, quella che non fa notizia, che non risalta nelle statistiche, che si perde nel grigiore di rotative del tutto indifferenti. Era, come altri, il prototipo di un sogno e della tigna del sogno. Inseguire gli aquiloni della mente, le volute della speranza: facile a dirsi ma pensate ad una città molisana degli anni ’60 (molisana? Fino al 1963 abruzzese-molisana, noi non si era né carne né pesce, sempre a rimorchio di altri, trainati, trascinati quale sgradita zavorra), pensate alle difficoltà, alla retorica degli emigranti (prima di Troisi, e Troisi era di Napoli e dunque maschera perfettamente riconoscibile). Signore e signori, ecco a voi Fred da Campobasso. E giù fischi, scherni, prosopopea del pubblico che paga il biglietto ed ha sempre ragione. Alfredo se ne fregò e se ne andò. A cercare quel se stesso che già conosceva e che doveva solo essere riconosciuto dagli altri, dal mondo. Lasciò Campobasso, la “città giardino” (c’era tanto verde all’epoca sì, così mi hanno detto, così ho visto in alcune bellissime foto), voltò le spalle al Molise (puozz esse accis, cantò poi, perché il Molise non sopporta i figli che decidono in piena autonomia, che fanno carriera. Non sono più molisani, punto e basta. Salvo che nei discorsi che ci fanno belli nei salotti). Alfredo se ne andò e divenne Fred.

 

 

La esagerazione post mortem che trasforma le vite in racconto, le asprezze in retorica, la normalità in senso, oggi parla di Fred come del Sinatra di Campobasso. Fa un po’ ridere questa superfetazione del talento, questo cercare il titolo ad effetto per consegnare all’eternità una goccia di splendore (e questo era De Andrè, il Dante di Genova). Fred era un cantante (confidenziale, come si soleva dire con formula ugualmente abusatissima), un Califano senza donne e droghe, e con meno sincretismo poetico, un urlatore incapace di urlare, un cantastorie di soffusa pacatezza. Un crooner, certo. Quando si parla di crooner immaginiamo facilmente locali pieni di fumo e whisky, donne in abito lungo da sera, cavalieri in smoking, danze cheek to cheek, amori che nascono, crescono, muoiono. Il crooner che svolge il suo ruolo di Cupido, che imbraccia microfoni come frecce, poi torna nel camerino e fa i conti con la propria e le altrui solitudini. Non è facile la vita del crooner, non è mai stata facile: Fred dovette emigrare da Campobasso, mettersi per così dire al servizio dell’amore, farsene cantore ed esegeta, annullarsi come persona per rifulgere negli sguardi innamorati o vogliosi di altre persone. Il crooner è sempre stato un tramite, un messaggero degli dei più capricciosi, l’amico cui non si confida niente e che pure conosce la tua vita più segreta. Il crooner deve farsi le ossa in provincia: Campobasso come Caserta, se vogliamo. Il ragazzo Faustino, che va alla visita militare in doposci, che sogna chitarre elettriche ma nell’animo ha la malinconia del crooner, è crooner per nascita, censo, oscure possibilità professionali. Lascia perdere, Johnny!, mirabile esordio registico di Fabrizio Bentivoglio, guarda a quel mondo con fiera e poetica nostalgia. L’orchestra scalcagnata del maestro Falasco, Gerry Como chiamato a rivitalizzarla, e Gerry Como è un simil Bongusto, canta per gli altri, perché gli altri volino mentre lui è destinato all’ancoraggio sul palco. Tutto torna: la provincia, il sogno, la ragazzitudine che aspira a farsi grimaldello di improntitudine, il fumo e la nebbia, un set di cartapesta come i sogni che di cartapesta possono essere fatti. Alfredo Bongusto, detto Fred, arrivò là dove finì o provò a spingersi Gerry Como: in un immaginario fatto di divani damascati e drink, in una poesia facile e raggiungibile, in un’eternità fatta di comunissime parole d’amore, quelle che più di altre possono cogliere nel segno.

 

 

*Si può avere ogni possibile idea sui crooner e sul loro mondo, su quell’impasto di retorica a facile presa e coccole da bar. A me Bongusto non smuoveva alcuna corda, salvo quella molto vaga della comune origine. E tuttavia la sua grandezza di icona rappresentativa di una certa Italia musicale degli anni ’60 sta tutta nella grandiosa, spudorata, ironica ma nemmeno poi tanto, citazione che ne fa Sorrentino ne L’uomo in più. “Mandaci Fred!” dice Antonio Pisapia in tono imperativo. Un’affermazione che vuole esprimere dissenso, anche disgusto, ma che in realtà è lancinante grido di invidia ed attestazione rassegnata di grandezza.

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Ultimi commenti

  1. pippus
    di pippus

    Mi ricordo paradossalmente molto più dell'altro Fred, quello trapassato ormai da 59 anni ( forse per lo stesso tuo motivo , Bongusto era di Campobasso e Buscaglione di Torino) che però di nome faceva Ferdinando. Comunque un ricordo utile per noi questo post che ad Alfredo non potrà che far piacere.
    Ciao Mario.

    1. MarioC
      di MarioC

      Ciao, Paolo.
      Buscaglione non l'ho mai incrociato ma ho sempre percepito intorno alla sua figura un alone di mitologia (tra l'altro non sapevo che si chiamasse Ferdinando).

      E grazie, come sempre. A presto

  2. (spopola) 1726792
    di (spopola) 1726792

    Scritto davvero con il cuore caro Mario. Bongusto meritava tutto questo. Erano altri tempi e i cantanti anche famosi difficilmente arrivano ad esibirsi nei teatri (figuriamoci negli stadi) anche quando avevano al loro attivo spettacoli televisivi di successo. Si dovevano accontenare delle balere, dei locali da ballo all'interno dei quali si ritagliavano lo spazio clou della serata praticamente gomito a gomito con il pubblico che spesso continuava a danzare più che fermarsi ad ascoltare le loro esibizioni. E' così che ho conosciuto anche Morandi, Mina e il Tony Dallara sulla cresta dell'onda reduce dal suo trionfo a Sanremo. Bongusto lo ricordo animatoredi una serata piovosa di dicembre di tanto tempo fa in un locale che si chiamava "Taverna Fiesolana a due passi da Firenze: poco più di uno stanzone col bar in fondo, pochi tavoli ai lati e una pista centrale con un palchetto rialzato non pià di mezzo metro per il complesso musicale e che allietava la serata dei giovani "romantici" dell'epoca che aveno pochi soldi e treovavano accoglienti anche questi improvvisati night del volgo. Era facile accontentarsi insommai (il prezzo di ingresso per la presenza del cantante di grido aumentava solo di poche centinai di lire) negli anni delle feste in casa Ma la professionalità dei cantanti non veniva certo meno per questo: era la loro gavetta e Bongusto in quel contesto era totalmente a suo agio anche nello scambiare parole fra una canzone e l'altra... sembrava uno di noi e non si preoccupava minimamente se invece di ascotare la sua voce in religioso silenzio, continuavamo a limonare sulle note della sua Rotonda sul mare soltanto immaginata: Un bellissimo epitaffio il tuo caro Mario sai che mi ha commosso? Ed è bello commuoversi e ricordare anche se poi alla fine prevale un triste velo di nostalgia.

    1. MarioC
      di MarioC

      Grazie, Valerio, per le tue parole come al solito ricche di sensibilità. E grazie anche per il bellissimo ricordo che cattura in pieno lo spirito dell'epoca e l'epopea dei cantanti da night (chiamiamoli così, pur semplificando).

      Un saluto, a presto

  3. maurri 63
    di maurri 63

    Grazie, Mario. Per me, Fred era un ragazzo campano: il simbolo dell'Isola Verde,buono sempre come l'amarIschia dopo i pasti, come l'omonima terra dove soggiornava, l'uomo che cantò insieme ai miei amici de "Il Giardino dei Semplici" 'E fantasme, l'uomo che da una rotonda sul mare - quella rotonda, per me, doveva assolutamente essere Ischia, a Sant'Angelo, dove risiedeva - assaporava quel mare che sapeva d'estate, anche quando estate non era. E quando vidi, la prima volta, "Vaghe stelle", mi chiesi che c'azzeccava con Volterra quel pezzo, ché magari Luchino era impazzito e solo dopo realizzai che invece era proprio Visconti che era legato alla stessa isola a farne un omaggio...ecco, per me, Fred era questo ma niente più. Perché, fino a pochi giorni fa, ho sempre pensato che fosse il cantante da poche estati e che ci fosse poco più che la serata al night nelle sue corde. E di Campobasso, beh, nulla. Quando, nel 2003, inizio 2004 la Rai mi spedì a lavorare dalle tue parti, nessuno mi raccontò delle sue origini. Oggi, pur sapendolo, tu lo ribadisci. E il mondo che per me lo contornava, cambia. Grazie,

    1. MarioC
      di MarioC

      Ma grazie a te, per questa accorata testimonianza. Il bello dei personaggi diciamo, per semplificare, pubblici o celebri è che lasciano in ognuno un piccolo o grande seme della propria esistenza. Tanti pezzi di un puzzle che, alla fine, è bello ricostruire insieme, illuminandolo dalle più diverse angolazioni.

      Un saluto osta

  4. Utente rimosso (bufera)
    di Utente rimosso (bufera)

    Grazie per questa bella e sentita commemorazione,o meglio ricordo,era uno degli artiti oiù discreti ,modesti ,che accarezzava il cuore….

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