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Nanni Moretti: un maniaco di successo
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Benchè nato casualmente in Trentino Alto Adige, Nanni Moretti non è mai stato percorso da saette di calma olimpica, né da quella freddezza che proverbialmente si attribuisce agli uomini di un Nord un po’ estremo. Al contrario il suo essere ragazzo, adulto, quindi uomo quasi maturo, è stato innervato dai caratteri tipici di una romanità tuttavia non cartolinesca, anzi scossa da uno spaesamento aggressivo e da una timida inconciliabilità con buona parte del circostante. Difficile trovare, almeno nel cinema italiano, un attore/regista che, sicuramente nelle prime prove, meno palesemente nelle successive, abbia messo in scena un se stesso così profondamente senza filtri, squadernando al pubblico manie ed idiosincrasie, complessi e certezze, presunzioni e dubbi, sì da favorire, in chi fosse stato rapito da una così manifesta e narcisistica espressione di personalità, una indubbia e spesso totale identificazione, anche prossima all’innamoramento acritico.

 

La forza di Moretti (il limite per i non pochi detrattori) è stato proprio il coraggio di farsi centro del proprio mondo, e nel pretendere che quel mondo così tetragono, resistente alle novita, indifferente alla socialità, basito dalle volgarità, diventasse centro dell’universo, e così via, in una catena infinita di declamazioni sui massimi sistemi, di rivendicazioni intellettuali, di ceffoni alle mode imperanti ed alle afasie del contemporaneo (ovvero alla deriva di questa afasia in casualità delle parole) che riportasse in primo piano sempre e costantemente lui: il Nanni Moretti/Michele Apicella, sicuro di sé e insicuro degli altri (ma anche viceversa).

 

Il cinema di Moretti è un costante invito alla condivisione delle manie, servite sul piatto d’argento della spettacolarizzazione (espediente ordinario in un film-maker che, sin dalle prime apparizioni, è apparso scafato gestore dei gusti del pubblico), eppure esposte con un rispetto per la sincerità raro e profondo. Chi non ama il regista non può che sottolinearne l’imposizione coatta di sé, lo scandire con voce e prossemica i mali del mondo, nonché l’urgenza e necessità di farsi messia di una verità partigiana spacciata per universale. Al contrario, gli estimatori ne colgono e ne amano l’originalità dei tic, la nudità intellettuale, la capacità di intercettare ogni piccolo smottamento dell’animo e di rappresentarlo come necessariamente incastonato in una società che, a partire dalla fine degli anni ’70, registrava mutamenti di segni e prospettive che davvero spaesavano. Moretti, dunque, come aedo di una crisi sociale e intellettuale di fronte alla quale una delle poche prospettive e ancore di salvezza risultava essere il comportamento maniacale e/o fuori fuoco.

 

La Nutella. Michele Apicella che mangia la Nutella da un barattolo king-size è l’icona più fulminante dell’intero cinema del regista. Quella scorpacciata notturna, che va ad interrompere un coito probabilmente non voluto benchè desiderato, è il manifesto di un’impotenza non fisica ma psicologica, incarna la necessità di svicolare dagli impegni e dalle responsabilità, per mettersi alla finestra ed osservare il mondo con l’occhio lungo e la voce querula del moralista disilluso. Tutto Bianca (probabilmente il capolavoro di Moretti) si impernia del resto su questa stasi della volontà, sul fascino dell’inazione capace di farsi azione impensabile non appena intervenga uno scarto delle proprie certezze a cambiare le carte in tavola. La Nutella, allora, come rifugio atavico, come filastrocca fanciullesca o dolce aquilone capace di regalare quelle certezze che la scoperta del sesso ha appena spazzato via. Il passaggio all’età adulta è sinonimo di impegno, la crema alle nocciole (come anche attuale pubblicità insegna) è la madeleine di un tempo che si vorrebbe tramandare per sempre, al riparo dalle novità. L’atto di intingere il lungo coltello nella Nutella (a parte la facile metafora sessuale) non è altro per Moretti che la cristallizzazione di un sentimento che non sarà mai più puro come dovrebbe.

 

 

La festa. Ecce Bombo, o della gioventù smarrita percorsa da una socialità molto fine a se stessa (“Vedo gente, faccio cose”, potrebbe esserci più apodittica esposizione della sostanziale inutilità dei giorni?). Michele Apicella, in rotta con famiglia e amici, in perenne ricerca di un senso da dare alla propria crescita intellettiva e, più o meno, fisica, non sa se partecipare ad una festa danzante (di quelle tipiche degli anni’70, con giradischi, balli lenti e avvinghiamenti tra corpi acerbi, alcuni consapevoli, altri meno). O meglio: non sa, o non vuole riconoscere, quale sia il modo migliore per conferire alla sua tignosa timidezza ed al suo ineffabile sentimento di superiorià morale l’aura di giusto e irresistibile fascino. Andare o non andare, come mi si noterà di più? La comicità dell’esposizione del dubbio, e quel tornare più di una volta indietro sulla strada di una convinzione appena espressa, non riescono a nascondere la drammaticità di una condizione di precaria solitudine. Magari scelta, ma radicalizzata sì da escludere in partenza ogni possibile contatto con l’altro (nello specifico con l’altro sesso). Ecce Bombo è sociologia, un trattato sui ggiovani senza futuro e con scarno presente che Moretti, furbo, occultava dietro cazzeggi e balbettii.

 

 

Le scarpe. Ha appena confessato efferati delitti, il Michele Apicella di Bianca. Eppure non può fare a meno di intentare un’autodifesa goffa e poetica, nel celeberrimo discorso sulle scarpe. Anche esso petizione nostalgica a favore del tempo dell’Arcadia, quando anche le calzature erano perfettamente riconoscibili e designanti. Nella confusione successiva che Michele avverte e fagocita, pur rimanendone schiacciato, le scarpe hanno assunto un ruolo che va al di là di quello a loro comunente assegnato: una sorta di atout di riconoscibilità sociale, una bandiera di aggressività imposta e fasulla, un totem che ammanta di sicurezza ogni camminata, anche la più incerta, e scompagina l’ordine costituito della normalità, quello per il quale ogni piede ha bisogno della sua scarpa, e non possono esserci infradito ne décolleté a modificarne il destino di invincibile bruttezza.

 

 

Negli anni a venire, Moretti si discosterà progressivamente dal suo alter ego Michele Apicella. Ma, sempre, ad ogni personaggio non potrà fare a meno di conferire un più o meno latente passaporto da maniaco. Partirà dal prete di La messa è finita per arrivare al Papa di Habemus papam, personaggi molto più simili di quanto possa apparire, entrambi portavoce di un disagio e forieri della impossibilità di portare a termine (se non iniziare) il proprio mandato. Come non citare, ancora, i tre personaggi di Caro diario, tre diverse rifrazioni di un medesimo essere umano, devastato dalla nostalgia, dalla volgarità o dalla malattia, eppure con un serbatoio di idee e convinzioni destinato a salvarlo? O gli adepti di una sinistra (già) rancida nei pamphlet politici Palombella Rossa e Aprile? O, infine, il padre paralizzato dal dolore e dal risentimento de La stanza del figlio?

 

 

 

 

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