Un festival tira l'altro e la febbre è contagiosa.
E' il tempo a mancare, le ferie che scarseggiano, le faccende private legate alla quotidianità, quelle che costruiscono, migliorano, condizionano, danno un senso alla vita di tutti i giorni.
Tuttavia eccomi qui anche quest'anno, solo per tre giorni, momenti che spero sano densi di cinema e di soddisfazioni come in genere mi capita in queste circostanze.
Quest'anno divido l'onore di questo incarico con due simpatici e motivati amici, Pazuzu e Steno79 che sto incrociando ed incontrando sia in sala sia in attesa delle varie programmazioni, anche per dividerci i compiti e cercare di dare un quadro più completo possibile della manifestazione. Con noi inoltre anche la dinamica Gaiart e l'efficiente e per me insostituibile Port Cros. Insomma una bella squadretta di entusiasmo nei confronti del cinema.
Steno 79 con Alan Smithee
Pazuzu, Alan Smithee e Gaiart
Oggi la mia avventura inizia con STILL ALICE, del duo registico Richard Glatzer e Wash Westmoreland: il film è strutturato come un racconto drammatico, quasi agghiacciante, di un calvario che affligge da un giorno all'altro una bellissima cinquantenne colta e di successo, ed insieme a lei la sua bella famiglia che la donna si è costruita in trent'anni di vita di coppia.
Alice insegna materie linguistiche presso la prestigiosa Columbia University; ha un marito molto occupato ma amorevole ed affettuoso, tre bei figli già grandi, tutti pressoché realizzati o almeno con una meta da raggiungere. Il giorno in cui la donna, facendo jogging attorno a casa, si smarrisce nel parco trovandosi in stato confusionale, e poi ancora quando, durante un discorso ufficiale sul lavoro, perde il filo e non riesce a trovare il nesso logico per proseguire e concludere il suo trattato, Alice capisce che per lei è necessario un accertamento neurologico che possa dare una spiegazione a due avvenimenti così inconsueti ed imbarazzanti. Dopo i controlli alla donna viene diagnosticata una rarissima forma di Alzheimer precoce, di carattere ereditario, e dal rapidissimo evolversi.
Su una persona istruita e brillante come la donna poi, la avverte il medico che la cura, gli effetti progressivi di una malattia inesorabile e crudele che cancella e sgretola i ricordi distruggendo i traguardi ed i successi di una vita intera, appaiono ancora più devastanti e rapidi. Crudeli e destabilizzanti.
Con l'appoggio della famiglia, la donna escogita metodi sempore più ingegnosi per indursi a ricordare le cose e a sapere dove trarre notizie ed indizi, nozioni di base un tempo banali che ora vengono a mancarle; ma quel senso di vuoto, quel biancore che tutto cancella ed indefinisce appannando ogni particolare, prosegue il suo corso con effetti sempre più destabilizzanti.
Still Alice descrive con una certa lucudutà un percorso regressivo crudele ed inarrestabile, durante il quale la nostra malata arriva persino ad invidiare coloro che soffrono di cancro al posto del morbo che la sta divorando, rendendola apatica ed inerte.
Still Alice è inoltre e soprattutto il film di Julianne Moore, ovvero la sua prova da Oscar più clamorosa ed evidente.
Forse proprio per questo il film, corretto, ben narrato, ma anche tanto convenzionale e premeditato, condito da quelle sinistre e banali note di piano in sottofondo sentite in mille altre circostanze ed ostentate ruffianamente per cercare di fare breccia nelle emozioni del pubblico, manifesta anche tutti i suoi più marcati limiti, che si concretizzano in una totale assenza di originalità nella direzione, nell'organizzazione di una vicenda che tuttavia non può lasciare freddi o indifferenti, ma che avrebbe anche bisogno di una spinta personale e di carattere per distinguersi da tanti più convenzionali surrogati che trattano il calvario della malattia.
Alec Baldwion marito affettuoso e pingue convince anche più del solito, mentre i figli belli e fino a quel momento sereni, che vivono pure loro l'incubo di una malattia che potrebbe pure essersi trasmessa loro sin dalla nascita, hanno il bel volto intenso e piacevole di Kate Bosworth, del divo nascente Hunter Parrish, e di una combattuta e combattiva Kristen Stewart nei panni della figlia più giovane, quella che, a differenza degli altri, sceglie di non sapere, forse per poter affrontare in modo più totalizzante le incognite ancora legate alla sua carriera recitativa di teatrante, ancora in fase di crescita ed affermazione.
Insomma grandi attori, buone prove, direzione impeccabile, ma stile piatto, o troppo, davvero troppo convenzionale: forse proprio grazie a ciò il film farà incetta di Oscar durante la prossima edizione.
VOTO **1/2
Neanche il tempo di un caffè che mi tuffo in sala Petrassi, in coda per il thriller tedesco “THE LIES OF THE VICTORS” di Christoph Hochhausler.
Una storia concitata, ma anche piuttosto confusa, una macedonia di vicende ed avvenimenti concatenati tra di loro che finiscono per risultare, a mio avviso, eccessivamente ingarbugliati.
Un brillante giovane giornalista, bello come un modello da sfilata (vabbè facciamo finta che vada tutto bene), ma afflitto da una forma acuta di diabete, circostanza che ci viene più volte ostentata senza che ne comprendiamo a fondo le ragioni in rapporto all'intrigo che verrà, amante delle vetture vintage ma costose (guida tutto compiaciuto una Porsche anni '70) e del gioco d'azzardo, circostanza quest'ultima che gli procura debiti a non finire che lo costringono a dare spesso in pegno l'amata autovettura in attesa di onorare i debiti contratti.
Nel suo lavoro il ragazzo è abile e riscontra un gran successo di lettori, e le sue inchieste vengono pubblicate ogni volta su una pagina economica molto conosciuta. Interessandosi, ma nemmeno troppo a fondo, ad un caso di corruzione nell'esercito, il giornalista viene suo malgrado affiancato da una bella e giovane collega alle prime armi, alla quale egli affida, per tenersela lontana, un bizzarro caso su un grottesco suicidio di un uomo avvenuto allo zoo, gettatosi in pasto ai leoni dalla disperazione. Presto viene a galla una storia torbida inerente questo banale episodio di cronaca, legata addirittura al riciclo di sostanze tossiche e ai danni che tali rifiuti stanno causando agli operai addetti ad una ditta di smaltimento. Guarda caso costoro si scopre che sono tutti ex soldati, facendo si che il caso del giornalista combaci con quello della collega. Il thriller, fotografato pallidamente ed attraversato da una scialba luce pallida forse funzionale al gelo dei sentimenti di cui si nutre il protagonista, non riesce mai ad attizzare un vero e proprio interesse, ad avvolgere con la sua storia contorta e slabbrata; ancor più quando il mistery comincia a procedere su due binari che si congiungono a tratti ma molto rozzamente, rendendo il complesso piuttosto fumoso e latitante di una auspicata suspence.
VOTO **
Ore 16: intervallo forzato di almeno due lunghe ore all'interno di un festival pieno di buchi ingiustificati o riempiti da eccessive conferenze a cui il sottoscritto è davvero allergico.
Allo Studio 3, saletta da 70 posti e non di più, la gente si picchia, non a torto, per contendersi gli ultimi posti di X+Y, film inglese gradevole e riuscito dell'inglese Morgan Matthews. Io finirò per guardarlo in piedi, e poi seduto per terra in un lato della angusta sala.
Il film si fa forte di un gran cast ove spiccano il bel viso espressivo-pensieroso-impaurito della giovane star Asa Butterfield; ma pure la grintosa e dolce Sally Hawkings nei panni della madre, e il sempre plausibile Eddie Marsan contribuiscono non poco alla riuscita della pellicola.
Qui la genialità oltre la media finisce per divenire un handicap e sta alla base della storia toccante di Nathan, piccolo genio incompreso amante della matematica e considerato autistico per incapacità di socializzare con alcuno. Nessuno è in grado di capirlo eccetto forse il giovane ed allegro padre, che però muore prematuramente in un incidente d'auto. La madre cerca un contatto con Nathan ma questi la rifugge spazientito e inconsapevolmente crudele; fino a quando la donna pensa di iscriverlo ad un corso avanzato di matematica ricolto a liceali, tenuto da un bizzarro e caratteriale professore storpio, sofferente di una distrofia regressiva già avanzata. Si prospetta un periodo più sereno per il timido Nathan, che viene scelto anche di far parte della squadra nazionale inglese alle prossime olimpiadi matematiche di Taiwan. Il ragazzo vivrà un'esperienza formativa molto viva e avrà occasione di incrociare pure una timida storia di innamoramento. Matthews dirige con scioltezza una storia che sa catturare il pubblico e farsi apprezzare, forse un po' eccessivamente frammezzata in due quando la vicenda procede di pari passo a raccontare la storia taiwanese e la storia d'amore tra la madre ed il professore storpio. Il cinema inglese eccelle ancora una volta con una storia semplice di sentimenti e contrasti caratteriali, riscatto sociale e rispetto delle mille sfaccettature altrui, puntando sulla semplicità e la classicità di una narrazione che cattura e convince quasi completamente.
VOTO ***1/2
Oggi è anche il giorno del gran regista francese di Amelie e Delicatessen, Jean-Pierre Jeunet col suo film per ragazzi “LO STRAORDINARIO VIAGGIO DI T.S. SPIVET”. Un film che, vi confesso, ho già visti quasi un anno addietro, essendo già uscito da tempo nelle sale francesi.
Si tratta comunque di un film girato splendidamente, come di consueto con Jeunet, forte di un 3D che valorizza ancor di più il gran lavoro registico dell'ottimo cineasta, qui tuttavia impegnato in un film minore, non cero all'altezza di molti suoi gioielli del passato.
Se vi interessa, scrissi al proposito una recensione in occasione della mia visione nizzarda, che potete trovare anche cliccando qui: T.S. SPIVET.
PARK CHAN-WOOK è un nome che merita i caratteri cubitali: una personalità cinematografica spiccata che ha generato deliri cinefili e fans sfegatati che anche oggi accorrono in massa per non perdersi il suo ultimo piccolo lavoro: un film su commissione; un corto che altro non è che uno spot lungo e lussuoso, bizzarro e maliziosamente virile, commissionato dalla Maison Ermenegildo Zegna al regista della trilogia della vendetta, per elevare a culto gli splendidi vestiti e le stoffe pregevoli che scaturiscono dalle produzioni del celebre brand.
A ROSE REBORN. Un uomo d'affari bello, giovane e spregiudicato (Jack Houston), ha tra le mani uno straordinario e misterioso brevetto che intende cedere al miglior offerente. Tra i contendenti, alcuni suoi uomini via skype gli consigliano un misterioso signor Lu, e dunque l'uomo si prepara ad incontrarlo. Da Londra, dove l'uomo si fa predisporre un abito perfetto fatto su misura, l'uomo parte in business class per il Wyoming, ove è costretto a scendere in una miniera per incontrare un enigmatico emissario di mister Lu. Per suggellare un patto di intenti i due uomini si scambieranno le rispettive giacche.
Il regista Park Chamg-wook fotografato in sala prima della proiezione
Poi in un museo di una città orientale per celebrare la riuscita del contratto i due si scambieranno i pantaloni, tra l'ilarità o lo sconcerto degli altri visitatori. In una tasca inoltre il manager troverà un fazzoletto di seta con ricamato un indirizzo che lo porterà a Milano, presso il cimitero monumentale. Ivi, in un luogo di morte, l'uomo farà vedere a Lu la sua ingegnosa invenzione: uno strumento che immagazzina acqua e vita, potendo ridare la vita ai deserti, facendoli rifiorire. Le rose dunque torneranno a rivivere. Eccentrico come è plausibile possa risultare uno spot, il piccolo film è girato con la perizia che caratterista il gran regista, non può che ritenersi riuscito, nonostante una trama densa e fuorviante che non rinuncia ad esaltare e valorizzare la capacità di vestire del prestigioso marchio italiano.
VOTO ***
Clive Owen in Sala Petrassi
Ma oggi è pure il giorno di THE KNICK e ancor più di CLIVE OWEN, uomo tra i più apprezzati dalle donne. Bello certo, affasconante pare, ma pure bravo, l'attore è protagonista e produttore dell'ultma fatica di Steven Soderbergh, il talentuoso, pluripremiato e prolifico regista statunitense che da tempo aveva promesso di ritirarsi dal cinema oltrepassata la soglia dei cinquanta. Dirigendo The Knick il regista in un certo senso mantiene fede al proprio proposito perché esso è un insolito, coraggioso serial televisivo di 10 puntate da un'ora ciascuna, il cui titolo prende spunto dall'ospedale newyorkese del 1900 ove è ambientata tutta la vicenda umana e lavorativa di un tenace e contraddittorio medico di nome John Thackery.
Questa sera, in presenza dell'affascinante attore che manda in subbuglio ogni orario ritardando di almeno 40 minuti la programmazione, abbiamo visto solo le prime due puntate. Tempo permettendo nei prossimi giorni completeremo la visione. Certo l'impressione delle prime due ore è buona se non ottima, regalandoci il serial un inizio folgorante col risveglio del protagonista tra i fumi oppiacei di un bordello, mentre si reca di fretta a raggiungere l'ospedale dove lo aspetta un importante intervento d'urgenza. Una iniezione tra le dita dei piedi di qualche droga calmante, una operazione shock su una donna in gravidanza avanzata e a rischio che finisce letteralmente a schifio in un bagno di sangue e morte. Il primario e capo del protagonista, sfiduciato da troppi insuccessi, per quanto luminare per quei tempi, si suicida aprendo il percorso di carriera e dirigenza della struttura al nostro uomo. Un tipo non certo facile, caratteriale, razzista, avverso alla famiglia facoltosa dei brillanti finanziatori dell'ospedale che non ne approvano certe baruffe caratteriali né ne condividono determinanti scelte etiche.
Insomma un E.R. Di inizi '900 o un The Kingdom senza fantasmi, se non quelli maturati dagli errori della propria coscienza. Splatter quanto basta per sbalordirsi di trovarsi di fronte ad un prodotto televisivo, il lungo film butta nella mischia con destrezza tematiche etiche universali come appunto la coscienza e la responsabilità di chi si destreggia col destino di vite altrui come se fosse un arrogante dio totalitario e smargiasso; per non parlare della piaga razziale, che vedeva all'epoca i neri discriminati e totalmente allontanati da ogni forma di sanità ufficiale, oltre che osteggiati tutti i validi medici di razza nera, anche se più eccelsi della media. Una bella sorpesa festivaliera, forse la vera sorpresa di questo festival o comunque di questa densa giornata.
VOTO ****
Concludo la giornata con l'horror brasiliano accattivante sin dal titolo, QUANDO EU ERA VIVO, di Marco Dutra. Un film certo interessante, ma non per questo riuscito completamente. Certo le atmosfere cupe, gli oggetti kitch che abitano una casa come tante, nascosti in cassetti come per dimenticarsi di un passato scomodo o imbarazzante, risultano davvero piuttosto efficaci e attanaglianti. Junior è un ragazzo sui trentacinque che fa ritorno nella casa paterna a San Paolo dopo un matrimonio fallito. Suona per farscaprire dal padre, in uno stabile borghese affacciato su un parco dal quale provengono urla strazianti di un folle. Il genitore è vedovo da qualche anno, ma ancora attivo e dinamico, tanto da non gradire troppo il figlio tra i piedi mentre lui ha da tempo affittato la sua camera ad una bella studentessa, e frequenta una matura vicina di casa che gli fa pure da mangiare. Tuttavia l'uomo ospita il figlio a dormire in salotto sul divano, distante da un misterioso angusto sgabuzzino colmo di mille ricordi della precedente vita familiare.
Ma bastano poche ore per far riaffiorare nel giovane i tetri ricordi del passato legati a pratiche esoteriche che la madre praticava davanti a lui e al fratello, ora tenuto in un manicomio in quanto non più in grado di interagire col mondo esterno. Marco Dutra eccelle nel confezionamento e nella predisposizione delle atmosfere, che risultano davvero inquietanti; ma si perde poi proprio dietro di essere evitando di aggiunìgere quella concretezza alle situazioni che seguiranno, in modo da dare un po' di corpo ad una vicenda che ha solo l'anima ma manca di sostanza. Fatto sta che questa sospensione, questa attesa estenuante, crea un po' di disagio o nervosismo (e alsesto film permettete che un po' di nervosismo sia facile ad accendersi in noi), allontanando la soddisfazione che le premesse felici facevano sperare o auspicare.
VOTO ***
A domani, che poi è già oggi...se vorrete.
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