È sempre difficile racchiudere in poche parole il percorso artistico di una persona. Lo è ancora di più quando il soggetto in questione, a poco più di trent’anni, vanta alle spalle tra cinema e televisione oltre una ventina di titoli realizzati da registi come Marco Tullio Giordana, Steven Soderbergh, Carlo Lizzani, Liliana Cavani e Francesco Patierno. Ana Caterina Morariu, nata in Romania nel 1980 e cresciuta in Italia tra la Calabria e la Toscana prima di approdare al Centro Sperimentale di Cinematografia, ha il suo nome indissolubilmente legato a quello di Carlo Verdone che l’ha scelta per il ruolo di Cecilia in Il mio miglior nemico, personaggio che all’attrice è valso anche una candidatura ai David di Donatello. Il nome forse non è facile da ricordare ma la bellezza greca, la versatilità in scena e la simpatia a cineprese spente non lasciano indifferenti chi ha la fortuna di incontrarla lungo la sua strada. Come è accaduto a noi in occasione del Capalbio Film Festival, a cui la Morariu ha fatto da madrina, e durante il quale si è soffermata a raccontarci il suo essere attrice a 360°.
Ti abbiamo appena visto impegnata nel ruolo di madrina al Capalbio Film Festival, dedicato al mondo del cortometraggio. Quello del corto è un universo che da sempre ti vede impegnata in prima linea sia come attrice sia come produttrice. Da dove nasce questa passione?
Sono molto contenta di aver fatto da madrina al Capalbio, un festival dedicato ai cortometraggi italiani e internazionali. Mi piace molto vedere cosa riescono a fare i giovani (ma anche i meno giovani, non c’è più un’età prestabilita né per realizzare cortometraggi né per girare lunghi) per riuscire a raccontare in pochi minuti una storia che abbia un inizio, una fine e una parte centrale in cui succede qualcosa. D’altro canto, il cortometraggio è una buona palestra per chi vuole fare il cinema. La mia passione per i cortometraggi nasce dal Centro Sperimentale di Cinematografia, che ho frequentato come studentessa: ogni anno avevamo un esame da sostenere e dovevamo girare dei cortometraggi in qualità di attori. Da allora, mi appassiona molto vedere quegli aspetti produttivi ed organizzativi che riguardano tutti i settori che ruotano intorno al mio lavoro.
Una volta finito il Centro, con amici e persone a me care ho continuato a ripetere l’esperienza trasformandola in una vera passione, perché fare cortometraggi non è semplice: ho visto gente girare anche per 24 ore senza fermarsi niente, nelle condizioni più disagiate possibili e chiedendo favori a destra e a manca (del tipo, prendere 10 cappuccini in un bar per girare una scena lì). Si tratta quasi di una sfida.
Anche perché, da un punto di vista distributivo, i cortometraggi non hanno un destino fortunato.
Hanno dei circuiti a sé. Nella migliore delle ipotesi, i corti arrivano ai festival. Mi è anche capitato di vedere bravi registi di corti che, pur avendo vinto delle rassegne, si sono fermati e non hanno mai fatto il grande salto. Non è detto che chi arriva a realizzare un corto riesca poi a fare un film.
Da cosa credi che dipenda? Dall’industria cinematografica che non ha più né voglia né mezzi per investire su un nome nuovo o da altri fattori concomitanti?
Nel momento in cui realizzi un corto, puoi anche raccontare la tua storia senza dipendere dalle decisioni di terzi. Ti puoi permettere il lusso di rischiare e di fare qualcosa che magari vedi solo con gli amici (non è molto edificante ma accade anche questo). Per un lungo, invece, un regista deve comunque sottostare alle decisioni di altri soggetti, che in base ai dati provenienti dal mercato cinematografico non credono nel progetto con la stessa forza del realizzatore. A differenza dei film, per cui spesso si parla tanto senza poi arrivare a concludere nulla, il cortometraggio - una volta presa la decisione di farlo – lo porti a termine concentrandovi sopra tutte le energie possibili.
Il tuo curriculum artistico è molto variegato. Tu riesci ad alternare cinema e televisione con molta facilità, qualificandoti come una delle attrici più versatili del panorama italiano.
Sono molto fortunata in questo. Ho avuto la possibilità di lavorare con grandissimi registi sia al cinema che in televisione, di fare dei generi tra loro diversissimi e di impersonare dei personaggi femminili che spesso e volentieri sono davvero forti e ben scritti, dall’assassina alla poliziotta alla Madonna di La Sacra famiglia. Mi piace molto spesso alternare i ruoli che interpreto e, ad esempio, dopo un film drammatico passare ad una commedia. Ricordo che accettai Tutto l’amore del mondo di Riccardo Grandi dopo aver girato la serie Intelligence proprio per cambiare genere e atmosfera e non per il luogo comune che vuole la commedia più facile da realizzare rispetto al dramma. Anzi, spesso è il contrario.
Ed è proprio quello della poliziotta il prossimo ruolo in cui ti vedremo impegnata da settembre su Canale 5 nella quinta stagione della fortunatissima serie Squadra Antimafia – Palermo oggi.
Il mio personaggio si chiama Lara Colombo ed è il vicequestore aggiunto di Catania, dal momento che la storia per diverse ragioni si sposta da Palermo a Catania. Di più ovviamente non si può dire, per non rovinare la sorpresa a chi ama la serie e i suoi intrecci.
Allo scorso Festival di Torino ti abbiamo invece vista tra gli interpreti della commedia corale Como estrellas fugaces di Anna Di Francisca, un film dal cast multinazionale di cui abbiamo però perso le tracce in attesa che approdi nelle sale.
Mi auguro che, per il lavoro e l’impegno profusi da parte degli attori e dell’intera troupe, il film arrivi presto al cinema. È stata la mia prima esperienza con la recitazione in spagnolo ed è stato anche doppiato in italiano con la speranza e la certezza che il pubblico possa vederlo, anche perché un film che non esce nelle sale non è un film. Spesso capita che ci siano dei bei film che per ragioni che rimangono sconosciute restano nei cassetti di chi li ha prodotti ma, da quanto mi è sembrato di capire, potrete vedere la mia Marta di Como estrellas fugaces, una ragazza giovane innamorata delle stelle e la cui storia si intreccia con quella degli altri abitanti di un piccolo paese di montagna, al più presto. Como estrellas fugaces è fondamentalmente una commedia che parla della vita reale, quella che affrontiamo tutti i giorni, ma in chiave poetica.
Steven Soderbergh, Marco Tullio Giordana, Liliana Cavani, Carlo Verdone e Carlo Lizzani sono soltanto alcuni dei grandi registi da cui sei stata diretta, tutti cineasti con idee tra loro molto differenti sulla loro arte e sull’uso degli attori. Cosa vuol dire per te, invece, essere un’attrice?
Nonostante ogni regista abbia una concezione diversa di cinema, nel momento in cui da attore ti ritrovi sul set è alle sue mani che ti affidi. Insieme al regista, l’attore crea il personaggio nel quale il pubblico si riconosce o dal quale prende le distanze. Come dico sempre io, l’attore è chi porta a compimento il lavoro di tutti quanti: entrare in un personaggio vuol dire portare a termine le fatiche degli sceneggiatori, dei truccatori, dei costumisti o dei tecnici che si svegliano con te alle quattro del mattino.
Lavorare con registi diversi è bello e formante. È vero che usano tutti tecniche differenti ma il risultato è sempre lo stesso, ovvero quello di raccontare il film che stanno girando e di farlo arrivare al pubblico.
Con quale regista ti sei trovata meglio? Quale è l’esperienza tra le tante che ritieni in qualche modo la più edificante?
Non riesco a darti una risposta. Ho imparato da tutti quanti e ognuno di loro ha trovato delle chiavi diverse nel mio modo di stare in scena.
Anche perché tu sei letteralmente cresciuta in scena.
Si. Una volta terminato il Centro Sperimentale, ho iniziato subito a recitare e ho fatto tanti film in costume d’epoca. Negli anni passati, si facevano tante fiction in costumi d’epoca. Per inciso, io adoro recitare in costume e una delle esperienze più importanti che ricordi è stata quella dello sceneggiato Guerra e pace, una coproduzione internazionale che ha visto impegnati cinque differenti Paesi europei e attori provenienti dall’Italia, dalla Francia, dalla Germania e dalla Spagna.
Alternandoti tra cinema e televisione, non hai mai avvertito quella sensazione di essere considerata un’attrice di minore importanza dagli addetti ai lavori?
Succedeva soprattutto negli anni passati, quando era diffusa la sensazione che chi faceva televisione non era così bravo come chi faceva cinema. Una volta ho avuto la stessa discussione con Antonello Grimaldi durante un’edizione del Festival di Tavolara. Mi ricordo che dissi che per me l’unica differenza tra cinema e televisione è legata alle modalità e ai tempi di produzione: per un film giri due scene al giorno, per il cinema arrivi anche a dieci. Di conseguenza, fare televisione è un’ottima palestra.
A me è capitato di fare molta più televisione perché le sceneggiature che ho letto per la televisione mi hanno appassionato di più. Descrivevano personaggi femminili che mi andava di raccontare, come nel caso della serie Donne assassine. Ricordo che quando mi è stato proposto di interpretare l’episodio Lisa diretto da Francesco Patierno, non ho avuto un attimo di esitazione: progetto insolito tutto al femminile e con tantissime brave colleghe attrici ognuna con il suo forte personaggio specifico. Come dico sempre io, i film si fanno per far sognare o per far vedere quello che succede nel mondo sperando che certe cose non si ripetano. Donne assassine appartiene alla seconda categoria. Non è stato facile ma Francesco Patierno mi ha aiutato molto sul set, accompagnandomi ad entrare nel mio personaggio.
Un altro tratto distintivo del tuo curriculum è la presenza, oltre ai film in costume, di molti thriller. Non ultimo, il tv movie Omicidio su misura della serie 6 passi nel giallo diretto da Lamberto Bava. Ma anche Il mistero del lago di Marco Serafini o Il commissario Montalbano – L’età del dubbio di Alberto Sironi. Con una battuta, si può dire che hai la faccia da thriller.
Eh, si. Vedi? Sembro buona buona e invece… Non avevo mai pensato a questa casualità ma sarà frutto del fatto che mi intrigano le storie complesse. Non mi sono mai soffermata a pensarci.
Al di là dei film in costume e dei thriller, cinematograficamente è difficile dimenticare la tua Cecilia di Il mio miglior nemico, il film di Carlo Verdone che ti ha portato ad essere candidata ai David di Donatello.
Cecilia è un personaggio a cui sono rimasta molto affezionata. Lavorare con Carlo è stata un’esperienza unica. Carlo è un attore e un regista dalle qualità strabilianti e recitare con lui è qualcosa di impressionante. Mi ricorderò sempre che una volta sul set gli chiesi: «Carlo, ma non c’è niente che mi devi dire?». Mi rispose: «Ana, fino a quando io ti dico “vai” e non aggiungo altro, vuol dire che va tutto bene».
Poi, quando grida “Azione” con tutta la sua prorompente energia, ti dà un’iniezione di carica che ti rende divino stare sul suo set. La mia grande fortuna è sempre stata quella di avere trovato persone in grado di guidarmi lungo la strada e che mi hanno permesso di esprimere anche quello che io vedevo nei personaggi. Carlo è sicuramente tra questi.
Personaggi che non sempre sono scritti per attirare le simpatie del pubblico, come ad esempio quello di Diana nella miniserie Sarò sempre tuo padre, in cui interpretavi la moglie “cattiva” di Beppe Fiorello.
Cattiva è un eufemismo. Mi davano tutti della “str….”, vedi te. In quel caso, ho cercato anche grazie a Beppe e al regista Lodovico Gasparini di smussare lo stereotipo della madre che attacca e del padre che subisce. In Sarò per sempre tuo padre, c’era la storia di due persone che si amano e di due genitori e di un bambino, a differenza di altri copioni in cui gli adulti sono portati a fare le loro lotte e ci si dimentica del bambino. Il bambino non ha la capacità di un adulto di capire certe cose ma sente molto di più, rimanendo segnato per tutta la vita. Con Beppe e Lodovico abbiamo cercato di ammorbidire Diana e renderla più vicina al reale donandole diverse sfaccettature.
Tra un progetto e l’altro, sei stata in scena anche la compagna di Bruce Willis in Ocean’s Twelve.
Willis è un uomo meraviglioso. Posso dire che è l’unico uomo su un set che è riuscito a farmi battere il cuore per davvero: al suo cospetto ero emozionatissima. La cosa divertente è che, dopo aver finito di girare le scene con lui, sono ritornata a casa e in tv davano Pulp Fiction, l’ho rivisto e ho continuato a chiedermi se era lo stesso uomo a cui ero stata accanto fino a qualche momento prima. Willis è una persona di una semplicità estrema e ricordo quel giorno come uno dei più belli da me vissuti su un set: quando sono arrivata, Soderbergh - che era già in macchina - mi si è avvicinato per presentarsi e per salutarmi, dicendo che era molto contento di avermi nel suo lavoro. Io avevo una sola battuta ma l’educazione e l’accoglienza riservatami sono stati speciali, come da sogno è stata l’intera esperienza: quel giorno c’erano vicino a me Bruce Willis, Julia Roberts, Matt Damon e Don Cheadle, quattro grandi nomi del panorama hollywoodiano che si sono dimostrati very friendly e senza gli atteggiamenti da star che invece ci si immagina.
Un’atmosfera molto diversa da quella che sovente si respira in certi set italiani.
Purtroppo, mi spiace quasi dirlo, alcune volte da noi accadono episodi non proprio piacevoli. Devo però ammettere di essere stata fortunata anche in questo: ho trovato dei set meravigliosi, in cui si andava tutti d’accordo e si agiva come una grande squadra. Del resto, essere gentili e felici quando si fa il lavoro che si desidera fare e lasciare a casa i problemi di tutti i giorni non è cosa difficile.
Hai trovato invece differenze tra la macchina produttiva straniera e quella italiana?
Beh, considera che nel caso del set di Soderbergh c’erano sette persone a fare quello che in Italia fa uno solo. A volte, è una questione di numeri più che di modalità.
E poi nei set stranieri accade di avere spesso presente anche sceneggiatore e produttore.
Accade anche nei set italiani. In quelli in cui ho lavorato io, sovente il produttore è venuto a far visita al set durante il corso delle riprese ed è molto attento a ciò che ha intorno. Poi, ti rendi conto di quando arriva il produttore perché, essendo colui che deve portare a compimento quel progetto, tutti diventano più seri e si danno molto più da fare. Non si tratta di mentalità straniera o italiana, semmai dovrebbe parlarsi di sinergia: gli italiani, volendo, hanno anche una marcia in più ma spesso finiscono con il perdersi nelle parole e con il dedicarsi meno ai fatti. In Italia, abbiamo davvero dei grandi artisti. Credo semmai che le cosiddette “differenze” siano legate a una questione di disciplina.
A parte l’esserti “innamorata” di Bruce Willis, quale è stata l’esperienza più divertente da te vissuta su un set?
Tutte le volte che qualcuno mi fa la stessa domanda una sorta di vuoto cosmico non mi fa venire in mente nulla, a parte quelle situazioni molto surreali. Ad esempio, mentre giravo Tutto l’amore del mondo con Nicolas Vaporidis, si era su un ponte a Parigi, con un freddo glaciale, ed io, con un vestitino di seta, e Nicolas continuavamo a cercare dei posti per ripararci dalla pioggia e uscire a burrasca terminata. Oppure quando sempre sullo stesso set, ci hanno rubato tutto, compresa la prima giacca di pelle che mi ero appena comprata. Ricordo anche il set con Carlo Verdone che, durante le riprese, continua a chiedermi se stavo bene o se avevo dormito.
E un’esperienza che invece con il senno di poi non ripeteresti?
Nessuna. Da tutte quante ho imparato qualcosa, anche da quelle che possono sembrare alcune volte negative e che invece ti insegnano a capire cosa non vuoi che accada o cosa evitare.
Del tipo?
Ritrovarsi a girare un primo piano alle 4 del mattino dopo quasi 24 ore che sei in piedi e 8 di intenso lavoro e sforzo per evitare, come dice Verdone, che “ti crolli la faccia”. Ecco, gli orari di lavoro semmai andrebbero sicuramente rivisti, pensando che anche gli attori, nonostante la proverbiale resistenza, hanno dei limiti umani.
Ed io che immaginavo che tu non volessi ripetere le esperienze che ti hanno visto impegnata in corse o sparatorie.
No no, quelle le voglio fare. Adoro l’adrenalina di quelle sequenze. Quando abbiamo girato la serie Intelligence mi sono anche lanciata dal secondo piano, quasi per scommessa con il regista Alexis Sweet. Facendo l’attrice, ti capita di fare delle cose che nella vita normale si evitano, come quella volta in cui mi sono ritrovata, senza che avrei dovuto esserci, in una sequenza di inseguimento e a fare un testacoda che ha fatto impallidire l’organizzatore di scena. In compenso, mi sono divertita: sembrava di stare in una giostra. Senza ombra di dubbio, il mio è un bellissimo lavoro che ti permette di incontrare persone meravigliose e di far cose, anche pericolose, che mai avresti occasione di far nella vita reale.
Su un set, chi ti ha insegnato qualcosa che continui a portarti sempre dietro?
Sicuramente Carlo Verdone con il suo «Ana, fino a quando io ti dico “vai” e non aggiungo altro, vuol dire che va tutto bene». Mi ha dato la libertà per esprimere quello di cui sono capace e di non stare ad aspettare un cenno del regista o di essere incanalata. Così come ricordo sempre Liliana Cavani sul set di De Gasperi, l’uomo della speranza: lei ha un modo talmente diverso di girare che ti fa entrare all’interno dello spazio per poi mettere la macchina da presa in funzione dell’attore. O Alexis Sweet che, di fronte a una mia richiesta su come pronunciare alcune battute per un genere specifico e tecnico come quello di Intelligence, mi rispose «Tu dilla. Dilla e basta»: a volte, con la semplicità si ottiene il risultato migliore.
Che ricordi hai invece del set di Quando sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana?
Ricordo tanto ma tanto freddo. Giravamo in Puglia ed io avevo una forte tracheite. Aneddoti divertenti a parte, Marco Tullio Giordana è una delle persone più calme che io abbia mai visto in azione su un set. È un ottimo direttore di orchestra che riesce a dare a tutti l’input giusto. Durante le riprese, ho avuto anche la fortuna di conoscere Michela Cescon, una delle attrici più strepitose che abbiamo in Italia, e di lavorare a fianco di chi come lei ha molto da insegnare solo osservandola. La stessa cosa mi è accaduta sul set di La tassinara, dove guardando recitare Stefania Sandrelli ho visto e appreso la semplicità e la dedizione che il mestiere di attore o attrice richiede.
Le cinque giornate di Milano invece ti ha portato sotto la direzione di Carlo Lizzani, uno dei grandi maestri del cinema italiano.
In quel set rimediai una caduta che difficilmente dimenticherò. Mentre gridavo “Carlino, Carlino!”, caddi spudoratamente per terra ma continuai la scena. Mi ricordo che terminai la scena, mi alzai e risposi a tutti quanti che stavo bene, quando invece alzandomi la veste notammo che per poco non si vedeva l’osso del mio ginocchio sanguinante.
Beh, quasi un momento di neo-realismo cinematografico, oserei dire.
La cosa peggiore fu girare nei giorni successivi con il ginocchio che continuava a far male e mi faceva stare lì dolorante e quasi impossibilitata a muovermi.
Qual è il prossimo progetto già in cantiere?
Cominciamo a girare Squadra Antimafia 6 tra la fine di agosto e i primi di settembre.
Ah, quindi non muori alla fine della quinta stagione. Già questo è uno scoop.
Ah, beh, boh. Non si può dire.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta