La voce della luna
- Grottesco
- Italia, Francia
- durata 116'
Regia di Federico Fellini
Con Roberto Benigni, Paolo Villaggio, Nadia Ottaviani, Angelo Orlando
Di solito non leggo l'Espresso, ma questa mattina, entrando in bagno me lo sono trovato aperto su una pagina, nella quale ho visto pubblicato un articolo il cui titolo e autore hanno immediatamente attirato la mia attenzione. Il titolo era "Quanto fa male Fantasyland", l'autore Piergiorgio Odifreddi. Dopo averlo letto ho provato l'irrefrenabile esigenza di scrivere qualcosa, qualcosa che magari diventerà una lettera che spedirò al giornale, se non proprio al diretto interessato. Riporto qui il testo dell'articolo di Odifreddi:
QUANTO FA MALE FANTASYLAND
Nelle scorse settimane abbiamo assistito a un interessante incrocio di penne fra Umberto Eco ed Eugenio Scalfari. Ha cominciato il primo con "mentire e far finta", notando come spesso i lettori di opere di fantasia tendono da un lato a considerarle come vere, dall'altro a non distinguere tra le opinioni dell'autore e quelle dei suoi personaggi.
E' seguito Scalfari con "Anche se finto è tutto vero", ribattendo che la distinzione tra la verità fattuale e la finzione letteraria non è netta. Anzi, si tratta di due facce della stessa luna, come dimostrano gli influssi che hanno avuto sulla vita reale le opere di Manzoni o Goethe.
Ha concluso Eco con "Credulità e identificazione", ricordando come il potere della finzione derivi dalla sua verosimiglianza, indipendentemente dalla sua verità. In altre parole, benchè siano letteralmente falsi, i romanzi ci danno una lezione sulla vita in generale, e su noi stessi in particolare.
Se mi permetto, da scienziato, di introdurmi nel dibattito come "terzo fra cotanto senno", è solo perchè mi sembra che sia Eco che Scalfari, da umanisti, tendano a sottovalutare l'effetto deleterio che dosi massicce di finzioni finiscono per avere sul principio di realtà.
Proviamo a ripercorrere brevemente le tappe della formazione della psicosi universale, creata dal pervasino e invasivo mercato dell'illusione. Non appena i bambini acquistano l'uso della parola, e incominciano a fare domande su come sono nati, vengono loro fornite risposte idiote che vanno dai cavoli alle cicogne. Quand'essi approdano all'asilo, incominciano a ricevere i rudimenti di una visione magica del mondo popolata di angeli e demoni, miracoli e castighi divini, roveti ardenti e nubi parlanti, ciechi guariti e morti risorti, che continuerà a essere contrabbandata nell'ora di religione di tutte le scuole.
In quelle stesse scuole, verranno anche sistematicamente impartiti insegnamenti filosofici e letterari dello stesso genere, dagli dei omerici dell'Iliade e l'Odissea, alla schizofrenica voce del daimon socratico, ai regni dell'aldilà della Commedia dantesca, ai deliri idealistici di Hegel e Croce, al motto nietzscheano che "non ci sono fatti ma solo interpretazioni".
Parallelamente all'indottrinamento scolastico, il trinitario mercato letterario, cinematografico e televisivo sommerge il pubblico di storie irreali o magiche, dalle saghe del Signore degli Anelli e di Harry Potter a quelle delle "Guerre stellari" o del Robert Langdon di Dan Brown. Per non parlare delle fiction televisive sacre e profane, che intasano il piccolo schermo.
Questo mercato è sostenuto da un battage di recensioni, interventi, dibattiti e interviste che satura le terze pagine della carta stampata e della televisione. Questo martellante tam tam viene gabellato per informazione culturale, ma costituisce in realtà un parallelo mercato pubblicitario, che vive del precedente e lo aiuta a diffondersi capillarmente.
Il primo risultato di questa manovra a tenaglia è una società che non vive nella e della realtà, appunto, ma è immersa nella finzione generalizzata. C'è forse da stupirsi se, ormai assuefatti alle storie dei cantastorie, quella società finisca poi per diventare preda dei contastorie, politici o religiosi che siano? I quali, infondo, perseguono i propri fini con gli stessi mezzi, spesso raccontando addirittura le stesse storie.
Il secondo risultato è una società che non conosce la realtà e se ne disinteressa. Oggi qualunque scrittore o attore da quattro soldi, per non parlare di uno da milioni, riceve più attenzione ed esposizione di qualunque premio Nobel. E le contingenti e superficiali invenzioni del primo sommergono le necessarie e profonde scoperte del secondo.
Bisognerebbe fruire dei romanzi, dei film e della tv cum grano salis. Cioè a pizzichi da spargere sul piatto forte della scienza per insaporire la vita. Chi invece pretende di cibarsi di solo sale, non rimane sano a lungo e muore di fame intellettuale. Come stiamo facendo noi.
Non saprei da dove cominciare per replicare a quello che mi è parso immediatamente essere un gran cumulo di fesserie, un guazzabuglio di ideuzze organizzate in modo tale da formare delle fragilissime argomentazioni, caratterizzate da una mancanza di rigore che da un matematico non ci si aspetterebbe. La tesi da cui il Nostro partirebbe, sarebbe quella dell' "effetto deleterio che dosi massicce di finzioni finiscono per avere sul principio di realtà", tesi che il nostro ha sentito il bisogno di sostenere, ritenendo opportuno esprimere il punto di vista di uno scienziato sulla questione, da contrapporre a quello di due "umanisti" come Eco e Scalfari.
Se Odifreddi si fosse limitato a denunciare i mali di quella che Debord chiamava società dello spettacolo, e a cui lui stesso fa riferimento quando parla degli Harry Potter, i Dan Brown e i Signori degli anelli, che altro non sono che degradazioni consumistiche dell'immaginario fantastico (che esiste sin da quando esiste l'uomo), mettendo l'accento sull'ottundimento del senso critico prodotto dall'assuefazione all'edonismo di spettacoli per lo più televisivi e per lo più idioti, riconducibili alla massificazione culturale, insomma a quelle che la Guzzanti chiamerebbe "armi di distrazione di massa", allora il suo discorso sarebbe stato più che condivisibile.
Il problema è che nel calderone vengono gettati altri esempi di "cattiva immaginazione", di "fantasia che fa male", e che vengono associati a quelli appena menzionati, coi quali in realtà non hanno il minimo rapporto.
Innanzitutto mi chiedo per quale motivo Odifreddi si limiti a prendere in considerazione l'immaginazione soltanto in quelle che ritiene essere le sue manifestazioni negative, come nel caso dei terrori sovrannaturali inculcati dalla religione, delle storie dei bambini che nascono dai cavoli (di grazia, perchè dover spiegare a dei bambini molto piccoli in che modo vengono al mondo realmente i bambini? Perchè non lasciarglielo scoprire al momento giusto?), o dei "deliri idealistici di Hegel e Croce", e a identificarli implicitamente col fenomeno dell'immaginazione tout court, trasferendo dunque su quest'ultima il carattere della nocività.
In secondo luogo, mi chiedo come Odifreddi possa annoverare tra quelli che lui stesso ha poco prima definito "tappe della psicosi universale, creata dal pervasivo mercato dell'illusione", anche gli dei di OMERO, i regni dell'aldilà della COMMEDIA DANTESCA, e il DAIMON SOCRATICO, e considerarli dunque come presupposti di quello che sarà il "mercato dell'illusione" degli Harry Potter e i Dan Brown. Cioè, Dante e Omero rientrerebbero tra le "bazzecole" di cui la scuola riempirebbe la testa agli allievi, contribuendo così a creare dei potenziali spettatori di Harry Potter e lettori di Dan Brown??? Non so se queste affermazioni denotino più un'aridità, una spocchia, o un'idiozia imbarazzante: se c'è qualcosa di folle e delirante sono proprio dichiarazioni di questo tipo.
Trovo assurda inoltre l'idea che consumare molta fiction (intesa in senso lato, non quella televisiva, che fa male per davvero) porti a disinteressarsi alla realtà, perchè nulla impedisce che so, a un lettore accanito di Tolkien di essere informatissimo sugli avvenimenti politici, sociali ed economici. E ancora più assurdo è il fatto che, ripeto, Dante, Omero, Socrate, Hegel e Nietzsche, vengano assimilati ai filmetti fantasy o addirittura alle fiction e al gossip televisivo, in quanto responsabili dell'alienazione dalla realtà e del rincoglionimento collettivo.
Altra cosa che ho trovato fastidiosa, e dietro cui mi è sembrato di ravvisare la tipica arroganza dello scienziato che crede di avere le chiavi del mondo in mano, e di poter dunque uscire dall'ambito culturale di sua competenza credendosi in diritto di esprimere giudizi su qualunque cosa, come ad esempio la filosofia, è stato il tirare in ballo i nomi di alcuni filosofi, come Socrate, Hegel o Nietzsche, relegandoli implicitamente e subdolamente al regno della "fantasia", o peggio della "fantasticherìa", per quanto sicuramente discutibili e fantasiose possano essere le tesi di alcuni filosofi, tra i quali mi sentirei di inserire solo Hegel e Croce fra quelli citati; e il fatto dunque che questi pensatori vengano contrapposti, in quanto rappresentanti del "regno della fantasia", a quello della realtà e della scienza, al "piatto forte della scienza".
Forse mi sbaglio, ma mi sembra di vedere in tutto ciò la classica spocchia del positivista che intenderebbe screditare il pensiero (tutto il pensiero, non solo gli Hegel e i Croce) in nome della superiorità delle verità scientifiche.
Io non sono tra quelli che dicono che la scienza non sarebbe in grado di spiegare l'uomo, penso solo che ci sia nell'uomo una dimensione che sia irriducibile alla scienza, delle esigenze che la scienza non potrà mai soddisfare.
A questo proposito vorrei aprire una piccola parentesi per commentare un'uscita di un'altra positivista "dura e pura", Margherita Hack, che secondo me testimonia perfettamente l'arroganza e la spocchia di cui parlavo prima; la dichiarazione della Hack riguardava la definizione di ciò che chiamiamo "il Bene" e "il Male", e suonava più o meno così: "il Bene è non fare al prossimo ciò che non vorresti fosse fatto a te, il Male è non interessarsi al prossimo, recargli dei danni fisici o psicologici ecc". Tutto liscio quindi, possiamo vivere tranquillamente senza Dio con la nostra morale. Se solo la Hack, alla quale vanno riconosciuti tutti i meriti scientifici di questo mondo, si fosse sforzata un attimo di andare un po' più a fondo alla questione, si sarebbe chiesta forse PERCHE' noi giudichiamo "Bene" quella cosa là e "Male" quell'altra cosa, da dove derivano i concetti di Bene e Male e perchè l'uomo li ha inventati; perchè ovviamente sono stati inventati dall' uomo, non esistendo prima che esistesse quest'ultimo; e magari ci si sarebbe potuto chiedere anche: se si riconosce che questi concetti sono stati inventati, e dunque che sono frutto di arbitrio (perchè invenzione è sinonimo di arbitrio), non perderebbe forse la morale tutta la sua legittimazione, dovendo necessariamente basare quest'ultima il suo valore e la sua ragion d'essere su una necessità intrinseca e assoluta, che garantisca la sua indipendenza dall'arbitrio di ogni singolo individuo e il suo carattere impersonale o "sovrapersonale", senza i quali non potrebbe esistere alcun imperativo categorico? Non voglio farla lunga, il punto a cui voglio arrivare è: se dopo una approfondita riflessione si venisse a scoprire che non esistono nè il Bene nè il Male, nessun principio in base al quale si possa stabilire cosa è giusto e cosa no, e quindi che ad un'azione "ingiusta" debba corrispondere una punizione, l'uomo non si troverebbe di fronte all'angoscia della solitudine e della libertà, venendo a scoprire che non c'è nessuno che possa giudicare il valore morale delle sue azioni? E dopo questa scoperta, potremmo affermare di poter vivere tranquillamente senza Dio? E dunque, per chiudere il discorso, in che modo la scienza potrebbe placare l'angoscia derivante da questa eventuale presa di coscienza? Non penso potrebbe farlo, mentre potrebbero farlo il pensiero e l'arte, ovvero le "fantasticherie" di cui parla Odifreddi.
Odifreddi contrappone inoltre l'immaginazione (e quindi arte, religione, filosofia e Harry Potter) al "piatto forte" delle verità scientifiche; ci sarebbe da riflettere un attimo anche su questo: siamo proprio sicuri che la verità ci faccia più bene dell'immaginazione? Senza voler prendere posizioni troppo radicali, mi viene in mente a questo proposito un aforisma di Nietzsche: "la verità è brutta, abbiamo l'arte per non perire a causa della verità". Forse bisognerebbe rifletterci su un attimo, e chiederci: una volta che saremo arrivati a comprendere ogni verità (ammesso ovviamente che ciò accadrà mai), poi cosa faremo? Davvero la ricerca della verità sarebbe in grado da sola di saturare e rispondere ad ogni esigenza umana? E se magari venisse fuori che l'uomo non vuole arrivare a comprendere tutto, a scandagliare ogni verità, ma che sarebbe essenziale per la sua esistenza un minimo di ignoranza, di tensione perpetua verso l'ignoto? Altro problema che la scienza non può affrontare, in quanto non può trascendere sè stessa e l'unica esigenza a cui risponde, vale a dire proprio il bisogno di conoscere. Ancora una volta, credo che qui il pensiero e l'arte potrebbero venirci molto più in aiuto.
Siamo sicuri quindi che un Dante, un Omero, un Leopardi o un Fellini, non siano dei benefattori dell'umanità, quanto se non addirittura di più di quanto non lo siano stati un Galileo, un Newton o un Einstein? A questo proposito, ci sarebbe da ricordare a Odifreddi quanto disse Primo Levi sul fatto che, durante la sua prigionìa in un lager nazista, sentì l'esigenza di leggere Dante per cercare di ricordarsi di quanto nell'uomo ci fosse di bello e di sublime, e per poter sopravvivere in mezzo a quell'orrore.
Non vorrei che mi si prendesse per un reazionario anti-scientista oscurantista o chissà che altro, ripeto, ho solo riportato quelli che secondo me sono i motivi per cui l'idea di Odifreddi, secondo la quale la fantasia e il pensiero andrebbero ridimensionati e subordinati al sapere scientifico, è una tesi discutibile, e il motivo per cui il "piatto forte della sciennza" forse non è poi così forte, e che forse non è poi così in grado di "insaporire la vita" più delle altre cose di cui si è parlato.
Infine, un'altra considerazione che mi verrebbe da fare è la seguente: ciò che chiamiamo realtà, e che Odifreddi esalta contrapponendola ai "danni della fantasia", non è forse in gran parte un prodotto dell'immaginazione? L'arco e le frecce, la ruota, fino alle varie forme di organizzazione sociale e politica, pur rispondendo ad esigenze senz'altro reali, non nascono prima di tutto nella mente dell'uomo? E dunque non si potrebbe affermare che la grandissima parte di ciò che l'uomo produce sia tutta un'elaborazione mentale, un prodotto dell'immaginazione?
Se è così, allora la fantasia e l'immaginazione costituirebbero delle facoltà essenziali dell'uomo, la cui importanza per esso e per la sua evoluzione sarebbero forse addirittura superiori all'utilizzo degli utensili o alla ricerca della verità, visto che le precederebbero e ne sarebbero addirittura la conditio sine qua non, e quindi la pretesa di ridurre le infinite potenzialità dell'immaginazione, non ultima la sua capacità di arrecare piacere all'uomo, a ciò che chiamiamo "realtà" e di sottometterle a quest'ultima, di ridurre l'uomo a quel "sognatore definitivo, di giorno in giorno sempre più scontento della sua sorte" che "fa a stento il giro degli oggetti di cui è stato portato a fare uso" di cui parla Bretòn, la trovo una degradazione, un insulto all'uomo e a quella che forse è la più importante delle sue facoltà.
Regia di Federico Fellini
Con Roberto Benigni, Paolo Villaggio, Nadia Ottaviani, Angelo Orlando
Titolo originale 2001: A Space Odyssey
Regia di Stanley Kubrick
Con Keir Dullea, Gary Lockwood, William Sylvester, Daniel Richter, Leonard Rossiter
Titolo originale Un chien andalou
Regia di Luis Buñuel, Salvador Dalì
Con Pierre Batcheff, Simone Mareuil, Luis Buñuel
Titolo originale La science des rêves
Regia di Michel Gondry
Con Gael García Bernal, Charlotte Gainsbourg, Alain Chabat, Miou-Miou
Regia di Luciano Salce
Con Lino Banfi, Franco Bracardi, Adriana Russo, Luciana Turina
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