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Paradise Beach: Dentro l'incubo

Regia di Jaume Collet-Serra vedi scheda film

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M Valdemar

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Paradise Beach: Dentro l'incubo

di M Valdemar
4 stelle

 

locandina

Paradise Beach: Dentro l'incubo (2016): locandina

 

 

Arrovellarsi cercando di capire perché The Shallows nell'edizione italiana diventa Paradise Beach - Dentro l'incubo è esercizio inutile quanto cercare di dare un senso ad un'operazione, serenamente modesta, come il film stesso.
Diretto dall'Jaume Collet-Serra finora regista di lavori più che discreti quali Unknown, Run All Night e Orphan, ed interpretato, quasi del tutto in solitaria, dall'icona fashion Blake Lively dal talento recitativo inversamente proporzionale all'innegabile avvenenza, The Shallows naufraga in zona Squalo e dintorni, sotto l'egida di quell'ormai nutritissimo filone "uomo (donna) vs. Natura".
Dei quali riprende, come nel più anonimo dei compitini eseguiti ai fini di un sei politico, tutti gli stereotipi e l'armamentario visivo, scenografico, sonoro, narrativo, emozionale. Con l'aggiunta di qualche trovata ad effetto (sì, da mal di mare), quali le proiezioni sullo schermo di immagini/sfondi/telefonate dallo smartphone e dell'indispensabile orologio al polso con tutte le funzioni del caso (ora, cronometro).
Uno spot del Casio, in effetti (grande marchio, eh, ma non è questo il punto).



Il bagaglio delle banalità è assortito, dall'incipit con ritrovamento della telecamerina sulla quale sono impresse intuibili faccende "de paura" (ovviamente un'altra scusa per "ibridare" forma e formato), alle riprese spettacolari sopra e sotto le maestose acque cristalline, sopra la tavola da surf (e basta questo per comprendere di cosa si stia parlando). Laddove, per 'spettacolari', deve intendersi il più canonico assemblaggio di scene ad alto tasso di velocità e caos, organizzato in ralenty - innumerevoli, irritanti -, accelerazioni adrenaliniche, musica tamarra, e primi piani, inquadrature fisse e dettagli sull'oggetto indubitabilmente attraente Blake Lively.

Bionda, corpo perfetto, bikini d'ordinanza, zone calde in evidenza: peccato dover tagliare, controvoglia (e si vede), sempre un attimo prima che le cose si facciano interessanti.
Nemmeno un azzanno scorretto in stile Piranha 3D di Aja, per dire; men che meno altro che non sia mera esibizione da sfilata di moda in riva al mare.
Quel che è peggio, però, è la psicologia di cui hanno dotato il personaggio: un bigino balordo e risibile di elementi arcinoti, derivativi. "Crescita" personale compresa: se l'inizio della (dis)avventura è dovuto al desiderio di commemorare la madre morta di cancro che sulla stessa spiaggia segreta aveva surfato e lasciato un'evocativa/immagine di sé, con contestuale abbandono degli studi di medicina (non è un dettaglio trascurabile, giacché le serviranno nel corso della sanguinosa battaglia con la bestia) e conseguente disapprovazione del pur comprensivo padre, alla fine la stessa avrà completato felicemente il suo percorso interiore come rassicuranti didascalia e scena finale certificano.
Completa il quadretto il compagno di isolamento forzato, un povero dolce gabbiano ferito che naturalmente la Nostra curerà, e che ricorda chiaramente il Wilson di Cast Away.
Le onde della noia insomma travolgono lungo un'ora e mezza dalla quale si salvano soltanto i dieci minuti in cui la lotta con lo squalo feroce si fa senza colpi: sebbene magari non molto credibile, in particolare per quella che è la risoluzione, almeno rende la visione un minimo eccitante e si dà un senso ad una tensione evidentemente più ambita e teorica che reale. Ovviamente non è sufficiente - come non lo sono gli splendidi scenari - a salvare un film piatto e che non osa mai.
Ah, il tifo era tutto per lo squalo.

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