Regia di Oren Moverman vedi scheda film
L'America di Moverman è quella marginale e sconfitta della Kelly Reichardt di Old Joy e Wendy and Lucy, un paese delle opportunità non andate a buon fine e di una ricerca di valori umani (l'amicizia, l'amore filiale, l'attaccamento al proprio cane) che sembrano gli unici antidoti ad un nichilismo esistenziale da cui non pare esserci scampo.
Cacciato dall'appartamento fatiscente in cui era ospite a causa dello sfratto della sua amica affittuaria, George si ritrova a vagabondare per le strade di Manhattan passando dalla sala d'aspetto di un grande ospedale ad un affollato dormitorio pubblico, da un banco dei pegni in cui racimolare qualche soldo ad un ufficio dell'assistenza sociale dove riscattare le proprie credenziali, cercando nel frattempo di ricucire un improbabile rapporto con una figlia ormai adulta abbandonata anni prima. La sua condizione di homeless però, lo rende un reietto condannato a vivere ai margini della società, senza alcuna speranza di riscatto e privato persino del proprio passato e della propria identità.
Storie di ordinaria emarginazione in questo film indipendente del filmaker di origini israliane, ma newyorkese d'adozione, Oren Moverman che puntano da un lato sul minimalismo documentaristico dagli umori blues del primo Cassavetes e dall'altro sul trasandato sex appeal di un incanutito e indomito Richard Gere. La povertà è una brutta bestia ed a poco serve addomesticarla e tenerla al guinzaglio, sembra ammiccare Moverman da una soggettiva perennemente estranea e sghemba che vorrebbe rintuzzare la cattiva coscienza di un pubblico occidentale che osserva con placida indolenza le sorti di chi non c'è l'ha fatta, definitivamente tagliato fuori da un circuito produttivo e sociale che esclude e che ghettizza, capace al più della compassione e del rispetto che si deve a quella parte di umanità finita nel cul-de-sac dell'assistenzialismo pubblico e della solidarietà privata, ma senza alcuna speranza di reinserimento e riabilitazione, men che meno meritevole dell'affetto dei suoi cari. Non ci sono intenti moralistici o reprimende politiche per un film in cui lo stesso autore si mette dalla parte di chi osserva con freddo distacco le dignitose peregrinazioni di un uomo senza speranza, di una risalita dagli inferi della solitudine e della incapienza di un reietto che cerca di ricominciare là dove si era interrotto il suo percorso di vita, tra una moglie morta di cancro non ostante i disastrosi sforzi economici che lo hanno condotto alla bancarotta ed un figlia ancora piccola abbandonata alle cure dei nonni e per questo perduta per sempre. L'America di Moverman è quella marginale e sconfitta della Kelly Reichardt di Old Joy e Wendy and Lucy, un paese delle opportunità non andate a buon fine e di una ricerca di valori umani (l'amicizia, l'amore, l'affetto filiale, perfino l'attaccamento al proprio cane) che sembrano gli unici antidoti ad un nichilismo esistenziale da cui non pare esserci scampo. Un esperimento cinematografico di programmatcica sobrietà (camera a mano e piani fissi, colonna sonora ridotta ai minimi termini e realismo scenografico) con un titolo originale che allude ad una sospensione sine die del normale corso dell'esistenza e che utilizza il divo di turno senza abusarne ma facendo comunque le inevitabili concessioni ad un irresistibile appeal fisiognomico, alle phisique du role di chi è condannato ad avere un rapporto privilegiato col mondo femminile (la barbona scambiata per amica, l'infermiera iralandese, l'impiegata statale, la figlia sedotta e abbandonata: una bellissima ed intensa Jena Malone) e per questo meritevole di quel trasporto empatico che tradisce un finale aperto alla commozione ed alla speranza.
Tutto negli ultimi 10 minuti del film. E dire che c'è l'aveva quasi fatta!
Presentato al Toronto International Film Festival nel 2014 e distribuito in Italia solo nel 2016 a cura della Lucky Red.
"El purtava i scarp de tennis, el parlava de per lu
rincorreva già da tempo un bel sogno d'amore."
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