Regia di Lech Majewski vedi scheda film
Qual é il limite di Onirica? L’eccesso, la ridondanza e dunque la piattezza, il peso. L’impressione é che alla grandiosità del progetto non abbia corrisposto una realizzazione all’altezza dell’intento e nella fase attuativa il tutto sia precipitato sotto il peso della sua ambizione.
L’intento è formidabile, eccentrico e perciò stesso intrigante, come quello che tre anni fa affascinò le platee traendo da Pieter Bruegel il Vecchio, Die Kreuztragung Christi (La salita al Calvario), quel viaggio del cinema che fu I colori della Passione - The Mill and The Cross.
Come la drammatica, intensa materia pittorica di quello straordinario “pittore dei contadini” che fu Bruegel nella definizione di Karel Van Mander, suo primo biografo, divenne live action nel film, coerente con quella suggestiva istanza di base dell’arte che Roberto Longhi definì “trapasso interiore fra modi artistici,che sono anch’essi sentimenti vivi”, così ora é la poesia a suggerire l’immagine, e il poeta é Dante.
Se The Mill and The Cross rappresentò per Majewski soprattutto una sfida tecnologica, una vittoria del linguaggio cinematografico che si dimostrò capace di elaborare, con mezzi propri, il magnetismo visivo e la tecnica compositiva pluriprospettica del pittore, Onirica nasce con ambizioni maggiori, e forse in questo é il suo limite.
Perché di limiti bisogna parlare.
Come Dante, Lech Majewski affronta unviaggio.
Cielo e terra sono i punti estremi, l’uomo si muove tra queste due mete, l’allegoria del poeta trecentesco diventa il post-freudiano mondo dei sogni, ma la caduta libera nel male, individuale e sociale, é simile, mutatis mutandis.
La Firenze devastata dalle lotte di Guelfi e Ghibellini é la Polonia contemporanea, devastata da piaghe sociali e naturali, oltre che dalla lunga scia di sofferenze legate alla sua storia, e lo smarrimento dell’uomo in cerca di una guida, di un centro di gravità, terreno o ultraterreno, é lo stesso, nonostante secoli di distanza.
L’ascensione verso l’Empireo é costellata di cadute e di spine per entrambi e l’uomo, colpito da disgrazie insostenibili e dolori che non ha meritato, ma che pure deve scontare, si chiede:
“Dio é più onnipotente o misericordioso?”
Quel peccato originale che consiste nell’essere uomo e che impone una discesa purificatrice agli Inferi, “onde mostrarli le perdute genti, quella “necessità della sventura” che i Greci proclamarono sulle scene dei loro teatri e che rende eroica la scelta responsabile dell’uomo, qui diventa smarrimento, rifugio nel sonno e dunque nel sogno, e l’amletico “forse sognare” , non che essere temuto, é addirittura auspicato, perché nel sogno torna ad essere vero quel che vero non é più, o non é mai stato.
Figlio di tragedie che sono andate ben oltre la misura umana, costringendolo ad ipotizzare la morte di un Dio misericordioso, o la morte di un Dio tout court, il novello Adamo non può che raggomitolarsi su sé stesso in un silenzio popolato dai fantasmi che la sua stessa mente produce, perché “noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra breve vita é circondata dal sonno”, anticipava un altro poeta sommo ne La tempesta.
Il confessore di Adam risponde diplomaticamente al dubbio del giovane dicendo: “L’onnipotenza di Dio é aver creato la misericordia, che é la sua debolezza, ma non possiamo spiegare il suo mistero, se spieghi dio, egli svanisce”.
In cosa credere, dunque? E chi cercare? C’ é un’ancora di salvezza a cui aggrapparsi?
Adam (Michal Tatarek protagonista del film) é caduto in un tunnel di autistica abulia dopo aver perso in un incidente autostradale le persone che più amava, una donna e un amico.
Lasciata l’attività di docente universitario, uomo di lettere, poeta, ha scelto di fare il commesso in un centro commerciale. Quando arriva alla soglia critica, però, chiude la cassa e si rifugia a dormire dentro un carrello in magazzino, salvo essere scovato e licenziato in tronco dal vigilante di turno.
Vive in un appartamento buio dove fa tentativi di appropriarsi dello spazio con una benda sugli occhi, non risponde alle telefonate dell’unica persona con cui sembra essere in contatto, una zia, vive una vita solitaria in cui ogni circostanza (una visita al cimitero, un viaggio in treno, un caffè dalla zia) é buona per quel salto di dimensione che lo porta nel sogno, dove si snodano simboli di vario genere, ma tutti riconducenti al nocciolo duro della sua infelicità immedicabile.
Majewski ha definito il suo film “Una visionaria storia d’amore ispirata alla Divina Commedia” . Del sommo poeta sono distribuiti alcuni brani di lettura dall’Inferno e dal Paradiso lungo lo sviluppo del film, mentre una didascalia dal canto XXX del Purgatorio, con l’incipit del severo rimprovero di Beatrice al poeta posta in apertura, fornisce una chiave di lettura:
Dante perché Virgilio se ne vada
non pianger anco, non pianger ancora,
ché pianger ti conven per altra spada.
Centro ideale è dunque il tema della guida perduta, la retta ragione umana smarrita e la ricerca di un’alternativa possibile di sopravvivenza.
Il bagno nel Lete, la palude dell’oblio, é la conquista di una dimensione onirica permanente, una specie di ritorno nel liquido amniotico, nell’acqua che tutto lega e pulisce, ma anche porta via e distrugge.
Tra sogno e reale il margine si annulla, Adam rinasce e muore ogni volta.
Ma qual é il limite di Onirica di cui dicevamo all’inizio?
L’eccesso, la ridondanza e dunque la piattezza, il peso.
L’impressione é che alla grandiosità del progetto non abbia corrisposto una realizzazione all’altezza dell’intento e nella fase attuativa il tutto sia precipitato sotto il peso della sua ambizione.
Troppi simboli, troppe citazioni, spiegazioni, sottolineature, parallelismi studiati per balzare in tutta la loro studiata evidenza, in una parola é come se Michelangelo ci mostrasse scalpelli, chiodi, martelli e tutto l’armamentario tecnico invece che la leggerezza aerea e la dolcezza dolorosa della Pietà.
Adam che fa il commesso al supermarket, bizzarramente identificando l’inferno dei nostri giorni con quel regno delle casalinghe disperate, la grassa zia logorroica, al limite della parodia del genere, che sciorina Heidegger e Seneca tra un caffè e l’altro, e intanto va ripetendo al nipotino: “Dimentica Basia, meno male che non sei morto tu, pensa, potevi anche rimanere cieco” e altre amenità del genere, le pagine di un vecchio volume di illustrazioni della Commedia di Gustave Doré che Adam sfoglia e il vento che arriva dalla finestra risfoglia (Griffith e DeMille, a cui pure piaceva molto Doré, evitarono simili esibizioni, però!) la lentezza di sequenze, come quella del ballo nel bosco, che, nell’evocare scenari onirici, citano Fellini a man bassa senza averne la magica genialità, il rimando documentario a disgraziatissime vicende polacche viste dallo schermo di un televisore acceso o dai finestrini di un treno in corsa in un déjà vu almeno centinaia di volte: tutto collabora ad un giudizio di sostanziale non riuscita di un film che, ahimè, aveva alimentato grandi attese!
Ma cose che capitano anche ai migliori, aspettiamo il prossimo
Utile, a questo punto, in uscita, vedere cos’altro dice Beatrice in quel canto del Purgatorio, riferendolo però al regista:
“Per questo visitai l'uscio d'i morti,
e a colui che l' ha qua sù condotto,
li preghi miei, piangendo, furon porti.
Alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Letè si passasse e tal vivanda
fosse gustata sanza alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda".
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