Regia di Tarsem Singh vedi scheda film
Dagli specchi scuri che riflettono un'immagine di (cancerosa) vecchiaia e (imminente) morte ai paradisiaci caraibici specchi d'acqua e cielo azzurrissimi dello scontatissimo zuccheroso finale buonista. In mezzo, uno sciocco trattatello stereotipato che affronta - grossolanamente, in modalità random e con la fiera noncuranza dello studentello viziato a cui tutto è concesso - cosucce come l'immortalità, il traferimento delle coscienze, il sacrificio (più o meno) volontario di poveracci per la causa, le paure connesse all'inesorabile disfacimento delle carni.
Un grigio involucro vuoto, Self/Less, l'ultimo film del sopravvalutato "talento" Tarsem Singh: messa da parte la sua ipercromatica vena "visionaria" si abbandona, mollemente, alla più convenzionale e impersonale delle visioni in salsa hollywoodiana, facendo scadere (nel ridicolo, spesso) una premessa certo non originalissima ma affascinante, potente.
Accasciandosi, mestamente, su uno script sciagurato e pasticcione che accumula meccanismi risaputi, colpi di scena prevedibili, incongruenze e falle d'ogni tipo.
L'ultramegamilionario affarista senza scrupoli Ben Kingsley, terminale, trasmigra mente e coscienza e personalità nel giovine corpo (ritenuto creato in laboratorio) di Ryan Reynolds e si riscopre avere, per magia, scrupoli e una tempra morale d'acciaio (nonché, guarda un po', doti atletiche da supersoldato). Oltre a quelli che l'ambiguissimo scienziato (il malcapitato Matthew Goode) inventore della cura chiama "problemi tecnici": sì, allucinazioni/frammenti di ricordi della vita dell'involucro, cancellabili con una magica pillolina al giorno. Seguiranno, ovviamente - e nel solco della più collaudata banale formula del thriller cospirazionista, dell'uomo in fuga, dell'uomo in cerca di verità e libertà -, situazioni generiche e genericamente superficiali.
Senza granché interessarsi di un minimo di logica del (flaccido) racconto e delle "svolte" - non solo telefonate ma pure composte da numeri messi a caso -; senza che il buon Tarsem riesca a far percepire la propria "idea" (che non c'è) di cinema, una seppur vaga orma della propria presenza (a meno che non si considerino tali i normalissimi effetti speciali che accompagnano i momenti allucinatori).
In siffatto piatto stato delle cose, assurdo aspettarsi, poi, un qualche vago accenno riflessivo della materia: l'attenzione - per così dire - è indirizzata unicamente alla mera esposizione della storia, a espedienti e mezzucci vari che ne regolano lo sviluppo (e che eludono, malamente, alcune ovvie questioni), agli spicci insulsi impulsi sentimentali(stici), a banalizzare i cambi di location, a cercare - non riuscendoci - di dare un senso ai comprimari e a rendere credibile il non (mai) credibile Ryan Reynolds (Kingsley, bontà sua, esce presto di scena), a portare a casa l'ammuffita pagnotta.
Peccato non abbiano inventato alcuna pillola contro certo cinema sciatto e inutile.
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