Regia di Giuseppe Tornatore vedi scheda film
Tornatore è un grande regista. Fa film di qualità anche quando cade nel tranello del sentimentalismo legato alle originarie radici. Se "Baaria" mi aveva delusa, perché abituata ad un cinema, si esistenziale ma non eccesivo da disturbare, quest’ultima pellicola del regista siciliano, è una vera opera d’arte, più opera d’arte di tutte le opere d’arte che racchiude. Racconta l’animo umano e la più oscura parte in cui sono racchiusi i sentimenti (spesso) celati. La solitudine abitudinaria viene scalfita e poi mutata dall’accelerarsi dei battiti cardiaci che eccitano il ritmo alla (non) visione di una fanciulla avvolta nel mistero e circondata da un’aura di mistero sostenuta da una voce che avvolge l’aria e i pensieri. Un cuore puro mai sofferente, si lascia coinvolgere in qualcosa di nuovo, nell’inganno dell’amore che potrebbe essere simulato(?) così come ogni sentimento mutevole che non si serve dell’anima, che resta in superficie. Tornatore possiede la sottile bravura di rendere l’ambientazione fredda, a tratti ostile, tanto da indurre lo spettatore a tenere alta l’attenzione laddove l’inganno è più vicino di quanto si sospetti. Geoffrey Rush è Virgil, un famoso battitore d’aste che colleziona ritratti femminili, di inestimabile valore, per anestetizzare la mancanza di una donna che occupi la sua esistenza in modo concreto, finché Claire non irrompe nella sua vita stravolgendola. L’attore australiano ci regala un’intensa interpretazione capace di condurre lo spettatore nei meandri dell’ingenuità che scaturisce dalla fiducia verso il prossimo più prossimo, quell’amico fraterno che ha le sembianze celate di Caino. Un finale sorprendente dopo una messa in scena notevole, un viaggio nell’arte come monito all’inganno che si aggira tra i dialoghi, ambiguamente interpretati, che culminano nella frase che Virgil rivolge all’amico Billy: "In ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico". Ed è tremendamente vero da procurare una risata isterica di accettazione.
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