Regia di Sergei Loznitsa vedi scheda film
L’angoscia e la tensione morale , il senso di colpa ossessivo e pressante per quanto ingiustificato, possono essere ancora più duri e dolorosi da sopportare delle ferite materiali, anche quelle crudeli e mortali derivanti da una guerra devastante come quella dell’ultimo conflitto mondiale.
Ci troviamo in Russia, nel 1942 e le truppe naziste hanno da alcuni mesi invaso i territori fino al confine ovest, ponendo fine, con il sangue e la cieca rappresaglia ai danni spesso di innocenti, ad ogni azione di resistenza portata avanti dalle truppe partigiane. Nel corso dell’ultimo rastrellamento che fa seguito ad un tentativo di boicottaggio della linea ferroviaria, vengono impiccati tutti i sospettati: tutti tranne un ferroviere di nome Sushenya, che invece viene clamorosamente rilasciato. Inevitabilmente tutti pensano che il prezzo della sua liberazione sia stata la denuncia degli altri rivoltosi suoi complici. A nessuno viene in mente che ad architettare il diabolico piano sia la mente perversa di un ufficiale nazista che rilascia l’uomo proprio per punirlo della sua ostinazione a non parlare e per fargli assaporare la dolorosa sensazione del sospetto di tradimento. Proprio lui, Sushenya, omone grande e grosso, buono e per questo deciso fino alla fine a non parlare né tantomeno rivelare nomi o responsabilità.
Tempo dopo, raggiunto di notte a casa da due partigiani che intendono vendicarsi del supposto tradimento, e rassegnato ad essere giustiziato per un'azione non commessa, l’uomo sopravviverà miracolosamente grazie ad una imboscata dei tedeschi proprio un attimo prima dell'esecuzione; in quel momento, nonostante tutto, si prodigherà per mettere in salvo il suo carnefice ferito e dimostrerà una fedeltà alla causa del tutto fuori del normale: un sentimento che tuttavia nessuno sarà in grado di poter valutare perché Sushenya rimarrà l’unico superstite dopo un lungo e faticoso peregrinaggio nella boscaglia, tra la nebbia fitta e la desolazione: l’unico almeno fino a quando l’uomo non sarà costretto a scendere a patti con la propria coscienza, in una bellissima ed altamente drammatica scena finale in cui appunto la bruma del bosco diviene finalmente quella protagonista citata ampiamente nel titolo.
A quel punto l’onore e la fedeltà dimostrata non lo aiuteranno più né costituiranno più per lui il necessario conforto per spingerlo a tornare dai suoi cari, una moglie ed un figlio piccolo che come tutti gli altri lo considerano ormai un turpe vigliacco traditore.
Lento e solenne come nella migliore tradizione dei film russi, il film si pregia di una apprezzabile ricostruzione d’epoca, fatta di particolari anche minuziosi che rimangono impressi, fra cui è possibile citare la magnifica ricostruzione dell’abbigliamento povero dell'epoca, gli accessori umili ma indispensabili dei personaggi coinvolti (mi viene in mente il cucchiaio ritrovato nella tasca del vestito di uno dei protagonisti appena cade vittima di un agguato e viene avidamente spogliato di tutti i suoi averi, tranne di quel cucchiaio, unico attrezzo a disposizione per affrontare i frugali pasti capitati ove la provvidenza si è curata di soccorrerlo; ma anche lo straccio che accuratamente vvolge i piedi dell'altro partigiano, per supplire la mancanza di calzettoni utili per affrontare il gelo).
Loznitsa utilizza in modo un po’ spericolato tre flash back che tuttavia si rivelano utili per consentirci di capire di più caratteristiche e punti di vista di ognuno dei tre personaggi coinvolti, dimostrando come sia soggettiva la considerazione del valore dei singoli individui, laddove uno dei due partigiani, pur rendendosi vigliaccamente responsabile di un eccidio di cittadini innocenti, viene unanimemente riconosciuto come un eroe della resistenza, mentre al contrario il protagonista Sushenya, nonostante l’eroica opposizione a far denunciare i responsabili dell'attentato al treno, viene superficialmente bollato come un codardo collaborazionista e condannato a morte dai suoi stessi compagni.
Punto debole di questa pregevole opera non è certo la lentezza e il ritmo riflessivo che personalmente apprezzo molto e che sempre più raramente ritrovo anche in opere ambiziose come queste, quasi che direttore e sceneggiatore dovessero perennemente sentirsi incalzati ossessivamente a garantire ritmo sostenuto e semplificazione degli avvicendamenti. Il limite di questo drammatico e tragico affresco d'epoca è invece imputabile ad una regia un po’ piatta, senza carattere, quasi televisiva, incapace di sorreggere la solennità di un andamento quasi estatico che vedremmo altrimenti benissimo nelle corde di un Bela Tarr o di un Sokurov.
Tuttavia per l'ancor abbastanza giovane Loznitsa (classe '64) l'inclusione del suo film nella principale sezione del Festival di Cannes 2012 (Concorso) è stata una occasione preziosa e tutto sommato meritata (per sforzo produttivo ed ambizione) per garantirgli una certa visibilità mondiale, forse persino nel nostro paese.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta