Regia di Niccolò Ferrari vedi scheda film
Una ricognizione “critica” intorno alla perdita dei valori “dentro” una classe borghese in quegli anni ancora egemone, ma già allo sbando (le “pesanti crepe” visibilmente esacerbate, individuate soprattutto sul versante dell’istituzione “famiglia” e su quello “formativo”) fatta con uno sguardo rivolto alle innovazioni formali della Nouvelle Vague.
Quello di Nicolò Ferrari (classe 1928) fu – con “Laura nuda” - uno dei più interessanti esordi, in un periodo per altro, in cui il cinema italiano godeva di particolare vitalità e salute (l’anno è il 1960). Dispiace davvero allora rilevare che, nonostante le positive tracce di una personalità che sembrava possedere molte frecce al suo arco, questo autore a 360gradi (si deve a lui anche la stesura del soggetto, oltre che la sceneggiatura e la regia) non abbia poi potuto dimostrare quelle che potevano essere le sue effettive capacità, perché non gli sono state concesse altre chances per essere davvero operativo, nonostante le buone accoglienze del debutto da parte della critica. Vogliamo dire che fu lungamente tenuto “in purgo” dal sistema anche a causa della pesante cappa di ipocrisia “clericalista” che serpeggiava prepotente e che vedeva “peccati” e trasgressioni da stigmatizzare un po’ dappertutto?). Magari non sarà stato solo quello, ma indubbiamente non fu nemmeno una spetto secondario, poiché il film (immagino più per la sua tematica che per scene davvero osè, che non ricordo presenti se non in qualche “necessaria” sequenza di “letto” indiscutibilmente molto pudica nella rappresentazione dei corpi, ma che qualcosa doveva inevitabilmente “far almeno intravedere” per risultare credibilmente accettabile) ebbe la sventura di incappare nelle maglie di quel bigottismo censorio furiosamente virulento in nome di una presunta “morale” da difendere che pretendeva di infierire su tutto ciò che riteneva non in linea col rigido puritanesimo del “comune senso del pudore” in auge in quegli anni (soprattutto quando erano le idee a spaventare). Lorenzo Pellizzari (critico piuttosto esigente e di “bocca” tutt’altro che buona),sulle pagine di “Cinema Nuovo” salutò così Ferrari e la sua opera prima: “NELLA SEMPRE PIU’ FOLTA SCHIERA DI REALIZZATORI ITALIANI ESORDIENTI, NICOLO’ FERRARI OCCUPA FIN D’ORA UN POSTO NON TRASCURABILE. VICINO PER VARIE AFFINITA’ A REGISTI COME PETRI E DAMIANI, DISCOSTANDOSI PERALTRO DALLA LATENTE MECCANICITA’ DEL PRIMO E DAL BOZZETTISMO TALORA GRACILE DEL SECONDO, IL GIOVANE DOCUMENTARISTA MANIFESTA FIN DALLA SUA PRIMA PROVA AMBIZIONI E CAPACITA’ DI VASTO RESPIRO. A ESSE SI ACCOMPAGNANO – A GIUDICARE DAL PRODOTTO FINITO – VARIE INCERTEZZE, CHIARE IMMATURITA’, APERTE INGENUITA’, MA NEL CONTESTO DI UN NOBILE ATTEGGIAMENTO (E CHE, D’ALTRA PARTE, ASSUNTO E INTENZIONI RENDEVANO INEVITABILI)”. Vorrei aggiungere da parte mia che si avvertiva nella forma, (ed era un ulteriore elemento di novità per il nostro cinema) un tentativo di adeguamento alle innovazioni linguistiche e strutturali della Nouvelle Vague e una volontà di svecchiamento di molti cliché che aumentavano l’interesse verso una pellicola, tutt’altro che immune da difetti e da “cadute” (soprattutto un finale fortemente melodrammatico che “stonava” un poco con la tenuta di tutta l’impalcatura precedente rigorosamente curata e “controllata”, quasi “raffreddata”, riscattato solo in parte da ciò che veniva espresso dal parlato). Per passare alla sostanza, anche in questo caso, si assiste a una ricognizione “critica” intorno alla perdita dei valori “dentro” quella classe borghese ancora egemone, ma ormai allo sbando (le “pesanti crepe” visibilmente esacerbate, individuate soprattutto sul versante dell’istituzione “famiglia” e su quello “formativo”) che avrebbe visto impegnati proprio nella feconda opera di inevitabile demistificazione “riflessiva”, molti nomi emergenti e non, attivi nel periodo (senza “citare” i grandissimi, Maselli e i suoi “I Delfini” Lattuada con “I dolci inganni” e Giuseppe Bennati con “Labbra rosse”, tanto per fare alcuni esempi pertinenti). Ferrari forse preferisce a volte restare più sulla superficie delle cose, anziché affondare il bisturi fino in fondo come sarebbe necessario, ma riscatta il mancato approfondimento tematico che gli può essere imputato, con un efficiente contatto (rapporto) introspettivo fra personaggi e ambientazione, e soprattutto fra ambiente e “ceto sociale”. Crea insomma, una struttura narrativa che è anche ideologica che ne fa quasi un film a tesi (che sia stato proprio questo aspetto a fare tanto imbestialire i censori?). In effetti con l’emblematicità del suo percorso, il regista con “Laura nuda” vuole certamente soffermare il suo interesse per evidenziare i riflessi negativi sull’individuo di una particolare forma “di educazione sentimentale” ancora in auge in quegli anni, finalizzata - per la donna - al passaggio diretto da una adolescenza priva di stimoli “chiarificatori” di conoscenza, al matrimonio “come convenzione sociale” e realizzazione pratica dell’esistenza, e per questo spesso portatrice di scompensi non solo affettivi, con possibili scivolamenti consequenziali, a fronte di un pervaso senso di “insoddisfazione” considerato inammissibile, verso la ricerca di esperienze salvifiche fuori dagli schemi e dalle “convenzioni” codificate, nella speranza di poter ritrovare così la propria essenza. Un percorso a ostacoli fortemente “distruttivo” che procede precipitosamente verso il basso, fino a una supposta “redenzione” finale (qui però reinventata in chiave prettamente laica), a cui Laura, la protagonista, approderà non tanto per una “integrità” interiore “ritrovata” (o mai perduta), quanto proprio per una motivazione che trae origine dal rapporto dialettico con l’esterno, quello col suo mondo e le persone che lo rappresentano che la portano ad essere critica spettatrice anche di se stessa. Sposata dunque con il debole e puntiglioso Franco (malmaritata si potrebbe dire) Laura trova rifugio nel tradimento, compiendo anche in questo itinerario una infinita serie di passi sbagliati a partire da Mario (il primo amante, un professore altrettanto debole e ambiguo, nel quale la donna ripone molte speranze poi tradite dai fatti, sognando una impossibile fuga a due dalla sua mediocrità), scivolando lentamente con insofferenza e cinismo, fra le braccia di molti – troppi – uomini analogamente “infidi”. Il contraltare di Laura (anche in funzione “drammatica”) è rappresentato da Claudia, l’amica, e dalla sua pacata rassegnazione che la pone allo zenit opposto in ogni senso. La contrapposizione è evidente: Claudia ha il bimbo che non vuole; Laura che aspira ad essere madre per ritrovare obiettivi ed equilibrio, non riuscirà mai ad averne uno; tanto è succube l’una, quanto insofferente l’altra. Sarà però proprio il travagliato confronto di esperienze tanto diverse, il constatare quanto profondo è l’abisso che le sta davanti, la conoscenza di pulsioni così antitetiche alle sue, a farla diventare più consapevole e guardinga , ma anche a crearle fratture che la renderanno dura e spietata (non solo con gli altri, ma anche con se stessa), quasi “irrecuperabile”. E la morte, altrettanto spietata quanto assurda e catartica, tanto improvvisa quanto inattesa, arriverà inevitabile a concludere il viaggio con paradossale tempismo. In qualche modo dunque quasi l’occasione esemplificativa offerta più che dalla vita dalla tesi dimostrativa del regista, per confermare (e far comprendere) che Laura (e il suo “ritardato” esame di coscienza) è mutata davvero, ha trovato finalmente la forza (anche se a caro prezzo) di sradicarsi dalle convenzioni sociali e non è più destinata a soccombere – come sembrava dovesse accadere - nella banalità del suo quotidiano esistere. L’innovazione sta dunque nella qualità delle scelte così poco conformi: Laura , pur non rinnegando le origini e la formazione, rimarrà ferma nelle sue decisioni, rifiutando persino di confessarsi anche quando tutto sarà davvero perduto. Caparbiamente ostinata a non trasgredire, per lo meno nella forma, a un principio di “integrità” (e non si tratta certo di un atto antireligioso in senso lato, ma bensì di una decisione finalmente umanizzata che è anche una dolorosa presa di coscienza) perché Laura non ha commesso “peccati”, si è semplicemente “buttata via” il che è ancora peggio e ne è ormai pienamente cosciente da accettarne le conseguenze senza recriminare. Al Cappellano che vorrebbe redimerla, lei lucidamente dichiara infatti (e mi sembra importante soffermarsi proprio sulla fondamentale importanza di queste parole): “MI SEMBRA CHE PENSARCI ORA NON SIA SERIO. NON SI PENSA MAI A NIENTE CON NESSUNO ED ORA LEI VORREBBE CHE PENSASSI A TUTTO IN POCHI MINUTI”“ che suonano come un chiaro, inequivocabile atto d’accusa non solo verso il proprio”mal de vivre”, ma anche verso certa società in senso lato. Il cast degli interpreti non sempre risulta all’altezza dell’arduo compito dimostrativo assegnatogli. Comunque appropriato come aderenza fisica, fa del suo meglio con assoluta dignità. In primo piano troviamo la protagonista, Giorgia Moll (Laura), coadiuvata dalle allora acerbe presenze di Nino Castelnuovo (l’inadeguato marito) e Tomas Milian (Marco, il primo amante). Attorno a loro, Anne Vernon (Claudia, l’amica) Milly, Riccardo Garrone e Giancarlo Sbragia. Forse non saremo di fronte a un altro Cronaca di una amore, come allora ipotizzava Pellizzari (anche perché non è stato possibile avere la riprova per mancanza di successive “occasioni”) ma “COME QUELLA PRIMA OPERA DI ANTONIONI” (e cito ancora Pellizzari) ANCHE QUESTA PELLICOLA SEMBRA PRESENTARE GLI STILEMI DI UNA PROMESSA CHE SAREBBE SCIOCCO O TROPPO PRUDENTE NON SOTTOLINEARE E NON VALUTARE”. Ma evidentemente il “mercato” è stato di tutt’altro avviso se le cose sono poi andate in maniera così differente….
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