Regia di Amjad Al Rasheed vedi scheda film
La semplicità è il marchio di eccellenza del film, appreso da antichissime tradizioni letterarie di cui Al Rasheed fa tesoro in un mondo, quello del cinema, sempre più incline alla magniloquenza e alla spettacolarità, alle contorsioni argomentative e all'oscurità comunicativa.
Nawal (Mouna Hawa) domina la scena per tutto il film, giovane astro luminoso al centro di una fitta trama di figure minori, donne e uomini di raggelata mediocrità, tutti, volontariamente o meno, tesi a toglierle qualcosa, a spingerla in un angolo, a fare della sua vita una dolorosa strada in salita.
Nawal non cede, è una piccola donna ordinaria, nulla in lei sa di protagonismo, non è l’eroina senza paura, eppure sprigiona la stessa forza caparbia, irresistibile. delle antiche donne del teatro greco, un mondo femminile di cui solo l’arte seppe trasmettere la forza e il dolore. Non cede a facili soluzioni come vendere il pick up del marito che lei non sa guidare, pagando così le rate al cognato molto pressante e mettendo a tacere il fratello, mollusco codardo ma uomo. Non cede alla proposta del collega fisioterapista innamorato di lei. Un altro uomo sarebbe utile al suo fianco dopo la morte del marito, è così che funziona per una donna sola.
Nawal è una donna della Giordania di oggi, ferma da secoli nella gabbia di un sistema che nega i suoi diritti, che copre con pesanti palandrane i suoi lunghi capelli, il suo corpo, la sua vitalità.
Il marito Asnan è morto all’improvviso, lo trovano senza vita nel letto al mattino la figlioletta e lei. Di tutto quello che era la sua vita, delle cause della morte, del licenziamento avvenuto da mesi, del pick up parcheggiato sotto casa e quattro rate da restituire al fratello Nawal non sa nulla, le carte per la successione Asnan non le aveva neanche firmate, il suo cellulare squilla ma nessuno parla dall’altra parte e una password lo blocca. Nawal era solo il complemento necessario per fare figli, accudire la casa e portare qualche soldo facendo la badante a tempo pieno.
Tutto normale fin quando la morte improvvisa non scompiglia le carte.
Scattano allora tutti i meccanismi repressivi di un mondo al rovescio, quello dove “La pace sia con te” e “Prega perché Dio ti aiuterà” sono le frasi più abusate, ma intanto Nawal non trova pace e Dio se ne sta per i fatti suoi.
Gli uomini (cognato, fratello, uomini di legge) si muovono da detentori del potere assoluto garantito da leggi sacre e inviolabili, le donne non sanno e soprattutto non credono di avere diritti e sono prone al loro volere, sembra che da quel mondo si debba solo fuggire alla ricerca della luce.
Ma Nawal non ci sta, c’è in lei una forza insospettabile che la fa andare avanti senza cedere, da sola, senza cortei né proclami, striscioni di rivendicazione e slogan perentori. Senza essere una suffragetta Nawal è decisa a liberarsi dalle strettoie imposte dagli uomini guidando da sola la sua vita e lasciando alla figlia Nora un esempio di indipendenza.
La Sharia prevede che senza un erede maschio sarà costretta a dividere l’eredità del marito con la famiglia di lui, rischiando così di perdere tutto, la casa e la custodia della piccola Nora. Solo se avesse un maschio non subirebbe queste conseguenze. Nawal deve inventare qualcosa e lo fa, ma il piano non funziona. La disperazione è alle porte, l’angoscia monta, sequenza dopo sequenza, fino al sorprendente finale che non va rivelato.
Diciamo solo che la formula Inshallah (se Allah vuole), forse a volte funziona, o forse è la legge di natura che gioca a rimpiattino con gli uomini facendosi beffe di loro, chini a pregare idoli di cartapesta per coprire la propria pervicace e stupida ignoranza.
Inshallah A Boy è l’esordio dietro la macchina da presa per il regista giordano vincitore del premio Premio Rail d’Or e del premio Gan per la distribuzione alla Semaine de la Critique di Cannes 2023 e primo film in assoluto della Giordania al festival francese.
Film indipendente e d’essai, Al Rasheed, alla sua opera prima, ha lavorato sei anni circa, tra la ricerca dei finanziamenti, la produzione e la realizzazione. In mezzo c’è stata anche l’interruzione causata dal Covid.
Volevo un film semplice, ma più semplice è e più complesso diventa il lavoro per raggiungere quella semplicità. Abbiamo lavorato tanto per esempio per trovare il giusto tono dei dialoghi, perché sembrassero familiari, quotidiani, come una normale chiacchierata. O sul linguaggio del corpo, nei piccoli gesti. Inshallah a Boy è una storia di sopravvivenza, di emancipazione e di speranza. Con questo film ho voluto denunciare l'oppressione imposta da una società patriarcale e invitare il pubblico a riflettere. Non credo che il film riguardi soltanto la società giordana. Affronta le disuguaglianze e le violenze imposte alle donne in tutto il mondo. In Giordania affronto questa disposizione della Sharia, ma potrei fare un film in Europa e parlare del divario salariale. Su scala globale, ci sono molte regole e leggi che fanno sì che le donne si sentano inferiori, ed è questa l’ ingiustizia che ho voluto denunciare.
La semplicità è il marchio di eccellenza del film, appreso da antichissime tradizioni letterarie di cui Al Rasheed fa tesoro in un mondo, quello del cinema, sempre più incline alla magniloquenza e alla spettacolarità, alle contorsioni argomentative e all'oscurità comunicativa.
Inshallah a Boy inizia in tono sommesso, va in crescendo, traccia caratteri, mette a fuoco personaggi, delinea scenari sociali e politici, e lo fa senza mai calcare la mano né assumendo toni didascalici. Il merito dell’attrice protagonista è grande e l’intero staff collabora egregiamente.
Lo spettatore è guidato con mano sicura da una regia pienamente consapevole e matura nel cogliere sfumature anche minime, seguendo Nawal nella lotta dura per l’affermazione di quelle leggi non scritte per cui Antigone diede la vita.
E siamo certi che riuscirà anche a manovrare sempre meglio quel pick up del marito parcheggiato sotto casa, a guidare s’impara presto quando si vuole.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta