Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
Ora, esco ancora “sbiadito” da questa visione ma non riesco, nonostante debba metabolizzarlo, a capacitarmi di come una nutritissima schiera di persone, in primis la Critica americana, che sarà ora ridimensionassimo, poiché estremamente fallace oramai sentenzia spesso per promuovere l’industria, abbia potuto definire questo “seguito” un capolavoro. Quando non ne possiede neppure un crisma, un fotogramma degno dell’originale. Paragoni non andrebbero fatti e sarebbe azzardato, da parte mia, voler sacramentare a sfavore di questo film di Villeneuve, che si conferma negativamente un regista molto di forma, abbastanza sulfurea e programmaticamente elegante nelle sue sfacciate stilizzazioni indigeste, e poco di sostanza. Ma non lo si può nemmeno liquidare, con molta superficialità, come film non riuscito, perché la sua bellezza, la sua particolarità, ce l’ha eccome. Ed è, come sottolineato da molti, lodabile il tentativo di “serializzarlo”, mantenendo una sua originalità che vorrebbe, non riuscendoci però, anzi mal emulandolo, distanziarsi dal capostipite per seguire una strada propria. Villeneuve s’impegna, gli va dato atto e il “beneplacito” di essere riuscito nell’impresa di ereditare un capodopera di cotanta, giusta fama, cercando di allontanarsene, di svilupparlo e anche farlo “progredire” in maniera autonoma, anzi “autoctona”, pur restando il naturalissimo fatto, non eludibile, di volerne conservarne intatti gli impianti scenografici, “imitandone” la fotografia lucente e nebulosa, quasi sporca, e di scegliere un percorso narrativo che, sebbene sia consuetudinario e neppure tanto brillante, basato sullo svelamento, spiegatissimo, di una trama “a dipanarsi”, di sue intuizioni (come il sesso “a tre”) se ne distacchi. Ma l’operazione è riuscita decisamente a metà, anche meno. Il film non doveva essere un’imitazione del film di Scott, non gli chiedevamo, credo, questo, ma pretendevamo che sapesse affascinarci in egual modo, che ci trascinasse in una storia e in immagini egualmente emozionanti, insomma che ricreasse magicamente il mito di Blade Runner. Che qui si limita invece a rimandi alquanto patetici, forzati, anzi eseguiti perché costretti a compierli. E allora il fantasmatico, invecchiato e appesantito Ford appare come da programma, tra i recessi della memoria e dalle nebbie di una costruzione fatiscente che serba ologrammi di Elvis Presley, di Frank Sinatra e della divina Monroe. Una scena lunghissima, che però manca di anima, dai dialoghi “balbettanti”, che non sanno sostenere le ambizioni e il peso che dovrebbero portarsi dietro. Non sanno trasmettercene la leggendarietà, l’aura quasi mistica che il film di Scott ha scatenato in noi. Ma io sono spettatore oramai attempato e vivo dell’originale, quindi sin dapprincipio m’è parso blasfemia farne qualcos’altro, che fosse un sequel o l’inizio di un possibile reboot, così come il finale ambiguo ci suggerisce.
Ma procediamo con calma. L’unica battuta memorabile rischia di diventare quella pronunciata da Dave Bautista, che non a caso, e Villeneuve lo sa, ritorna in flashback, quasi a volercela imprimere a tutti i costi nella memoria, perché probabilmente non ci aveva colpito come doveva. Come se Rutger Hauer ripetesse il suo celeberrimo monologo finale per far sì che diventasse cult. Roy Batty e la sua magnetica fotogenia non avevano bisogno di questi mezzucci e strategie “mnemoniche”. E basterebbe questo a screditare il film, la mancanza di una sceneggiatura all’altezza dell’intero progetto, una sceneggiatura che zoppica, che in verità scopiazza da altri classici della fantascienza, e annega a conti fatti nelle trite banalità che vanno a pescare anche le atmosfere “sferraglianti” di Mad Max o addirittura di un Waterworld sulla terraferma.
Insomma, le immagini sono visivamente, appunto, appaganti e splendide? Non è vero, alcuni attimi, alcune traiettorie visive, alcuni segmenti. Troppo pochi, mal coagulati nell’insieme, prolisso, che andava tagliato, una durata non necessaria, un film schematico e spesso gelidamente artefatto. Ma io sono di un’altra generazione e forse non capisco, così come mi sfugge l’inutilità del “cattivo” di Jared Leto, messo lì per i tardo teenager.
Cioè, quello era storia, questo è un presente confuso, non brutto, per carità, ma che mi lascia perplesso, mentre “sonnambulo”, chissà, nel futuro lo rivedrò. Nonostante tutto, apprezzabile, ma niente di più. Già ho peccato di generosità.
di Stefano Falotico
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